domenica 31 maggio 2020

Clint Eastwood, 90 anni di un mito

di FRANCESCO TRONCARELLI



Sergio Leone disse di lui che come attore gli piaceva perché aveva solo due espressioni: una col cappello e una senza cappello. Può darsi, ma su quelle due espressioni Clint Eastwood ha costruito una delle più longeve carriere della storia del Cinema. E oggi che quell' "Uomo senza nome" compie 90 anni, tutto il mondo applaude.

Attore, sceneggiatore, regista, produttore, musicista ha fatto di tutto, cominciando dalle piccole particine per arrivare agli Studios di Hollywood da interprete principale, un ruolo che lo avrebbe proiettato alla conquista dell'Oscar, il riconoscimento più ambito per chi fa questo mestiere.

Spesso e soprattutto agli inizi sottovalutato dalla critica che ne deprimeva le doti recitative, è stato capace di ribaltare quei giudizi con prove di grande spessore come attore e di indubbia maestria come regista. E' passato nel corso di una carriera lunga e ricca di soddisfazioni, da gigante della settima arte a mito del cinema senza soluzione di continuità. 
 
Nato il 31 maggio del 1930 a San Francisco, padre operaio e madre impiegata, Clint era uno studente normale con pochi interessi oltre la musica. Sguardo magnetico e andatura dinoccolata copiata dal suo idolo Gary Cooper, riuscì a strappare piccole parti nei B-Movies degli anni '50.

Poi divenne protagonista del serial "Gli uomini della prateria" che decollava sulla CBS nel 1959. Sul set rubava i segreti del mestiere e in tv divenne popolare, trasformato velocemente da quel medium nello stereotipo del tipo bello e riempi schermo, ideale per fare da sfondo alla vita della provincia americana.

Lavorare a lungo alla stessa produzione può soffocare la vita di un attore, e sette stagioni dopo Eastwood si ritrovò alla ricerca disperata di un cambiamento, arrivando anche a registrare un album di ‘Cowboy Favorites’. Ma fu la decisione di girare un western in Spagna, diretto da un italiano, Sergio Leone, che ancora non parlava inglese, a cambiare la sua storia artistisca.

La svolta però non arrivò all’improvviso. Nonostante ‘Per un pugno di dollari’ riscosse successo immediato in Europa, negli Stati Uniti la distribuzione fu bloccata per via della causa legale in corso tra Leone e Akira Kurosawa, che aveva scritto a Leone congratulandosi con lui per aver copiato il suo ‘Yojimbo’.


Mentre la causa si faceva largo attraverso l’intricato sistema legale italiano, Eastwood e Leone ebbero il tempo di girare altri due film. Una volta risolta la disputa, ‘Per un pugno di dollari’ e i successivi ‘Per qualche dollaro in più’ e il ‘Il Buono, il brutto e il cattivo’, la cosidetta Trilogia del dollaro, erano pronti per essere rilanciati nello stesso anno dalle Majors, e lo Spaghetti Western divenne il fenomeno grazie al quale Eastwood abbandonò per sempre il personaggio televisivo di Rowdy Yates.

A questo punto il cowboy dagli occhi di ghiaccio e dal sigaro in bocca aveva trentasei anni e andava di fretta. Nonostante il suo nuovo potere da star, si ritrovava però ancora ad interpretare ruoli secondari affiancando attori più affermati.

In ‘Dove osano le aquile’ con il divo inernazionale Richard Burton e ‘La ballata della città senza nome’ per esempio insieme al veterano Lee Marvin. Le cose cambiano dagli anni Settanta, grazie alla collaborazione con la sua nuova fonte d’ispirazione Don Siegel.

Eastwood avrebbe esteso infatti la sua gamma di antieroi americani passando dal soldato ferito de ‘L’inganno’ al poliziotto che non va per il sottile di ‘Dirty Harry’.

Gli anni passano e la sua carriera decolla, i suoi film fanno clamore e spettacolo, riempiono le sale e dividono la critica che comunque apprezza sempre il suo impegno e il suo modo non solo di recitare ma anche di girare.

Sì perchè nel bel mezzo di tanti film d'azione in cui era interprete principale, ha tirato fuori l'asso dalla manica imponendosi come uno dei registi più solidi e sensibili. Già il suo esordio, "Brivido nella notte" era un poliziesco di belle atmosfere e di buona fattura. Poi, nonostante qualche scivolone come "Pink Cadillac", si è andato sempre più affinando.

Sino ad arrivare a firmare quelli che si possono considerare autentici capolavori. "Gran Torino", di cui era anche il solo apparentemente burbero protagonista e con il quale viene considerato il "nuovo John Ford", maestro a cui lo lega la scelta di personaggi tormentati e soprattutto la passione per un cinema "artigianale".

Ancora, i due film sulla battaglia di Iwo Jima (vista da americani e giapponesi, su opposti fronti nella seconda guerra mondiale), in cui ha dato sfoggio delle sue qualità spiccatamente tecniche di regia e direzione del cast.


E poi c'è "Million dollar baby", vincitore di quattro Oscar pesanti, miglior film, miglior regista (Eastwood), miglior attore (sempre Eastwood nel ruolo di un vecchio pugile che forgia una campionessa) e miglior sceneggiatura (a Paul Haggis).

Col coraggio di cambiare che lo ha sempre contraddistinto, Clint il duro ha pagato il suo tributo a tanti generi cinematografici, dal carcerario (Fuga da Alcatraz), al road movie (Filo da torcere e Honkitonk man), persino alla commedia romantica.

Ci riferiamo ai "Ponti di Madison County" (1995) dove era un fotografo giramondo innamorato di una casalinga che non si era mai mossa dallo Wyomig, interpretata dalla grande  Meryl Streep. Ma ci sono due generi che ha sempre prediletto il western e il poliziesco. Generi in cui ha potuto recitare la parte che gli riesce meglio, quella dell'uomo che non deve chiedere mai, del duro e dell'antieroe scontroso e burbero.

Il western è stato il primo amore e gli ha dato la grande notorietà, ma dopo il personaggio col poncho (una sua trovata), il cappello e il toscano in bocca della trilogia del trasteverino Sergio Leone, Eastwood  ha continuato a cavalcare nelle praterie e non si e' più fermato.

Ted Post lo ha diretto in "Impiccalo più in alto", Don Siegel in "L'uomo dalla cravatta di cuoio" (western contemporaneo) e in "La notte brava del soldato Jonathan". Poi iniziò a dirigersi da solo e arrivarono "Lo straniero senza nome", "Il texano dagli occhi di ghiaccio", "Bronco Billy", "Il cavaliere pallido", "Gli spietati" anch'esso premiato con quattro Oscar.

Nel poliziesco ha trovato una vena altrettanto ricca. "Dirty Harry" ossia Harry Callaghan, diventato in Italia l'ispettore Callaghan, è stato una delle sue frequentazioni più assidue e incisive, "Coraggio fatti ammazzare", la frase tormentone di quella pellicola che ha fatto epoca.


Ma nella sua filmografia di polizieschi ce ne sono molti altri, da "Potere assoluto" a "Corda tesa", al perfetto e appasionante "Mystic River" con Sean Penn.

Piu' volte ha dichiarato di voler scomparire dai suoi film come attore e poi si e' smentito nel recente "The Mule"; di fatto si ispira sempre piu' spesso a personaggi reali che porta sullo schermo come eroi del quotidiano, da "Sniper" a "Sully" o a storie del passato come per "E.J. Hoover" o "Changelling".

L'ultimo film diretto da Clint Eastwood, sul set a 89 anni, è uscito lo scorso dicembre, "Richard Jewell". E' la storia vera di una guardia di sicurezza della AT&T, che scongiura l'esplosione di una bomba alle Olimpiadi del 1996, ma viene ingiustamente sospettata dall'FBI e perseguitata dai media.

Geloso della sua privacy, con parecchie storie sentimentali all'attivo nonostante un matrimonio ufficiale con Maggie Johnson e una lunga storia finita malissima con la collega e partner in molte pellicole Sondra Locke, padre di otto figli, l'introverso Clint ha dichiarato di non voler festeggiare questo traguardo anagrafico così importante.

Non lo festeggia perchè non ha intenzione di fermarsi per riposarsi anche se compie 90 anni: "Spesso mi chiedono perché non vado in pensione. Sono una persona curiosa da sempre, mi piace scoprire cose nuove, espandere gli orizzonti". E se lo dice lui, c'è da credergli. Cento di questi giorni Clint.
 

martedì 26 maggio 2020

Peppino 80 anni Gagliardi

 di FRANCESCO TRONCARELLI
 

Probabimente se fosse nato in Francia Macron gli avrebbe conferito la Legion d'onore come ai grandi vecchi della musica (Aznavour, Becaud, Henri Salvador), se fosse nato in Inghilterra invece, la Regina l'avrebbe nominato Baronetto per meriti culturali ed economici (come Cliff Richard, Shirley Sherley Bassey, Elton Jhon).

Sicuramente sarebbe andata così perchè in questi Paesi l'essere artisti è un valore assoluto e perciò quando un personaggio che ha sposato la musica come scelta di vita compie 80 anni, oltre gli auguri di rito c'è sempre un riconoscimento concreto, un'onorificenza che esalta e premia chi ha dato tanto alla cultura e al pubblico.

Ma Peppino Gagliardi è italiano, napoletano verace, figlio di una terra che ha la poesia e la musica nel sangue e perciò oltre l'affetto e gli applausi di chi l'ha sempre seguito e lo chiama giustamente Maestro, non ha ricevuto attestati di sorta a coronamento di una vita per l'arte.

Ed è un peccato, perchè se è già deplorevole che i media abbiano fatto scivolare questo anniversario (ulteriore conferma della mancanza delle basi di chi fa questo mestiere) è ancor più grave che non ci sia chi fra le alte sfere che amministrano la cultura nel Bel paese, abbia firmato un messaggio, un post, un tweet di ringraziamenti e riconoscenza. Ma sono scene già viste purtroppo.

Pianista di talento, compositore, un passato di scugnizzo prodigio con la fisarmonica e di successi nelle etichette discografiche locali, Peppino Gagliardi è un artista nel vero senso della parola, non un semplice cantante. E' un interpete che entra con la sua personalità nelle canzoni, le assapora, le vive e le fa sue dandogli un'anima.


E ne fa tanti atti unici grazie a un carisma eccezionale e una voce particolare, nasale e pastosa al tempo stesso, un timbro forte e impulsivo che ti entra dentro e ti scuote, come quando nel '63 balzò all'attenzione generale con "T'amo e t'amerò" dopo anni di gavetta nei night, nelle feste di rione e nei matrimoni, percorso obbligato per affinare la propria passione e farla diventare mestiere.

Peppino Gagliardi sorriso sornione e disincantato di chi conosce come va il mondo, è un gigante della musica nonostante il suo fisico minuto e scattante, "cantante dell'amore nevrotico" come scrisse qualcuno, l'Aznavour napoletano come scrisse qualcun altro, centrando perfettamente la sua intensità interpretativa che lo contraddistingueva fra i suoi colleghi.

E furono le Canzonissime, i Dischi per l'estate, i Sanremo (l'eterno secondo), i succesi a raffica di una stagione irripetibile del nostro pop con brani come "Se tu non fossi qui", "Settembre", "Gocce di mare", "Come un ragazzino, "Come le viole", che Giuliano Palma & the Bluebeaters ripresero anni fa rilanciandola in versione Ska.

Un grande successo per quel pezzo dal testo struggente e dalla linea melodica che ebbe nuova vita e che fece conoscere alle nuove leve Gagliardi classe 1940, 80 anni appena compiuti e festeggiati in famiglia con i figli Massimiliano e Davide e i nipotini Cristiano 9 anni e Alice 7, nel tepore della casa romana e con lo spirito di un diciottenne che amava e ama Ray Charles e i classici che hanno fatto grande Napoli.

Nella sua lunga e applaudita carriera, che ha avuto come tutti gli artisti alti e bassi come è nell'ordine delle cose e della vita, c'è poi quella gemma che lo ha reso artista senza tempo al di là dell'età anagrafica e lo ha fatto consocere in tutto il mondo. Ci riferiamo a "Che vuole questa musica stasera" brano per tutte le stagioni che riesce camaleonticamente ad adattarsi alle più svariate situazioni, tanta è la sua bellezza e musicalità.


La canzone infatti firmata dal grande Roberto Murolo e da Gaetano Amendola, paroliere storico di Peppino e che originariamente era stata presentata nel '67 al Festival delle Rose, kermesse musicale romana molto popolare in quegli anni, è il brano italiano più utilizzato nei film. Un record imbattutto sino ad ora.

Sono sei le pellicole che lo annoverano nelle loro colonne sonore a cominciare, citando a caso, da "La prima notte di quiete" con Alain Delon per proseguire con "Profumo di donna" con Gassman con "Lo spietato" con Scamarcio e soprattutto con la produzione internazionale di "The man from UNCLE" che gli ha dato una risonanza mondiale con tanto di exploit nelle classifiche di Stati Uniti, Inghilterra e Giappone.

Un successo enorme per questo piccolo capolavoro di quella che una volta veniva chiamata musica leggera ed ora pop, con un testo che introduce una domanda che molti si sono fatti ascoltando una canzone che rievoca tempi e storie andati: "che vuole questa musica stasera, che mi riporta un poco del passato".

Una poesia intimista sull'amore che non c'è più in cui Amendola si liberava dall'aridità dei numeri dei bilanci che la sua professione di commercialista doveva far quadrare, per scatenare la sua vena creativa a cui si sposava perfettamente la musica scritta dal grande Roberto Murolo che esalta nella melodia quel senso di malinconia che è il fil rouge della canzone.

E dove Peppino domina con la sua voce calda e graffiante a cui fa da contrappunto il pianoforte, regalando a chi ascolta un' interpretazione vibrante e intensa che colpisce subito e che a distanza di anni continua ad emozionare. Come solo i grandi sanno fare. Come solo Peppino, coi suoi 80 anni Gagliardi è capace. Auguri Maestro.


lunedì 25 maggio 2020

La musica yéyé, ecco "la foto del secolo"

di FRANCESCO TRONCARELLI
 


E' tutta un'altra cosa la considerazione che i francesi hanno della musica, degli artisti e della cultura che rappresentano. Rispetto a noi c'è un abisso. Lo si è visto per i funerali di Johnny Hallyday con l'omaggio al feretro del presidente Macron e la sfilata del carro funebre sugli Champs-Élysées con un milione di parigini presenti, lo si è visto con il messaggio di cordoglio per la scomparsa di Christhope con cui il Ministro della cultura ricordava l'apporto dato al paese da un artista come lui.

Qualcuno potrà obiettare che in occasione dell'estremo saluto a un personaggio famoso sono comprensibili tributi del genere, vero, ma a parte che da noi queste cose abitualmente non succeddono tranne sporadiche eccezioni (Alberto Sordi), il fatto è che questo atteggiamento di rispetto e per certi versi di "tutela" dei propri artisti esiste sempre e a prescindere. E lo spieghiamo con un esempio facile al tempo stesso sorprendente.

C'è una foto, unica nel suo genere e che poi, con decenni di distanza, sarà ripresa per altre situazioni anche da noi (le famose copertine di Sorrisi per presentare Sanremo), che ritrae tutti insieme 46 personaggi della cosidetta musica yéyé. Quei protagonisti cioè di una stagione irripetibile che ha segnato il costume francese e poi quello degli altri paesi prima della Contestazione giovanile del 68.

Un'immagine che al di là della bellezza in sè e dello scatto insolito per i tempi in cui venne fatta, ha ricevuto un attenzione mediatica incredibile. E' stata infatti ripescata dall'album dei ricordi della memoria collettiva d'oltralpe per essere proclamata nel 2000 dalla stampa specializzata, come la "Photo du siècle", la foto del secolo. E rilanciata poi dalla grancassa mediatica in occasione dei cinquant'anni dello scatto.

Jean Marie Perier

E' successo qualcosa di simile da noi? Silenzio assoluto. Nessuno ha mai pensato di riunire un numero così elevato di artisti per una foto, nemmeno quando sarebbe stato possibile, ovvero al Cantagiro, al Festivalbar o al Disco per l'estate e così via, e peraltro quelle immagini con qualche cantante che pure ci sono, legate a queste manifestazioni canore, non sono mai state elevate al rango di "foto del secolo" per celebrare un'epoca.

La "Foto del secolo" è una fotografia di Jean-Marie Périer per la rivista "Salut les copains", Ciao amici in italiano, come venne poi ripreso nel titolo dal settimanale edito da noi. Venne scattata il 12 aprile 1966, e pubblicata nel giugno successivo come poster centrale per il numero speciale della rivista, che celebrava i quattro anni di pubblicazioni.

L'autore dello scatto, il grande fotografo Perier, amico personale degli artisti di quel gruppo e per anni compagno e fotografo personale della stupenda Francoise Hardy, dovette faticare non poco per organizzare quella seduta allo Studio Mac Mahon.

Daniel Filipacchi il direttore della rivista e promotore dell'iniziativa, voleva che tutti i beniamini del pubblico giovanile fossero presenti nella foto, e così ci vollero tre settimane di preparazione per poterli riunire tutti.
Francoise Hardy, Johnny Hallyday e Sylvie Vartan idoli di una generazione

Alcuni non furono in grado di venire, come Nino Ferrer all'estero e Frank Alamo che prestava il servizio militare, altri come ad esempio Jacques Dutronc futuro marito della Hardy, non parteciparono perchè "esplosi" qualche mese dopo lo scatto. Ma per il resto c'erano proprio tutti.

Nomi dal richiamo internazionale e conosciuti anche da noi come Hallyday, la moglie Sylvie Vartan, la Hardy, Adamo, il re del twist Richard Anthony, Claude Francois (autore di My Way e Piange il telefono), Hervè Vilard (autore di Riderà), Sheila, Les Surfs (tanti Sanremo), Antoine (Pietre, Taxi, Cosa hai messo nel caffè), France Gall (La pioggia) e Serge Gainsbourg.

Nel ritratto di gruppo, i quarantasei artisti, posano davanti a un muro di mattoni su cui è inciso il nome della rivista. Su tutti domina Johnny Hallyday e non poteva essere altrimenti perchè considerato il leader di quel gruppo per carisma e proposta musicale (L'Elvis francese).

E' su una scala appoggiata alla parete di fondo. Jean-Marie Périer spiegò di averlo voluto lì per il fatto che era stato grazie a Johnny che era iniziato tutto quel movimento yéyé e voleva quindi che fosse messo in evidenza in relazione agli altri membri del poster, ma a loro insaputa per non offenderli (alcuni dei quali erano altrettanto popolari come Claude François e Richard Anthony).

Mise perciò una scala sullo sfondo e chiese di nascosto a Johnny, all'ultimo momento, di fare un passo verso la scala fingendo di non vederlo bene dall'obiettivo. Gli altri invece si posizionarono nelle postazioni assegnate, tutti tranne Christhope, spirito ribelle e anticonformista da sempre, che arrivò all'ultimo e si mise così in prima fila all'estrema destra, come a rimarcare il non voler essere accumunato agli altri.

Ecco allora chi c'era e i loro nomi



1 Sylvie Vartan, 2 Johnny Hallyday, 3 Jean-Jacques Debout, 4 Hugues Aufray, 5 Catherine Ribeiro, 6 Eddy Mitchell, 7 Danyel Gérard, 8 Claude Ciari des Champions ; 9 France Gall, 10 Serge Gainsbourg, 11 Frankie Jordan, 12 Michèle Torr, 13 Sheila, 14 Chantal Goya, 15 Dany Logan ; 16 Michel Paje, 17 Ronnie Bird, 18 Monty, 19 Sophie Hecquet, 20 Noël Deschamps, 21 Jacky Moulière, 22 Annie Philippe, 23 Claude François, 24 Eileen, 25 Guy Mardel, 26 Billy Bridge ; 27 Michel Berger, 28 Michel Laurent, 29 Nicole (Les Surfs), 30 Salvatore Adamo, 31 Thierry Vincent, 32 Tiny Yong, 33 Antoine, 34 Françoise Hardy, 35 Benjamin ; 36 Dick Rivers, 37 Monique (Les Surfs), 38 Hervé Vilard, 39 Jocelyne ; 40 Dave (Les Surfs), 41 Rocky (Les Surfs), 42 Coco (Les Surfs), 43 Pat (Les Surfs), 44 Le Petit Prince, 45 Richard Anthony, 46 Christophe, 47 peluche de Chouchou (la mascotte di Salut les copains).

Pensate quanto sarebbe stato bello avere una foto che immortalasse i notri ragazzi degli anni 60 tutti insieme, da Morandi alla Pavone, da Little Tony a Bobby Solo, da Lucio Dalla a Jimmy Fontana, da Patty Pravo a Mina, fino a Peppino di Capri, Fred Bongusto, Michele, Dino, Memo Remigi, Peppino Gagliardi, Nicola Di Bari compresi quelli che "ballarono una sola estate" come Piero Focaccia, Ricky Shayne, Franco IV e Franco I, Mauro Zelinotti, Louiselle, e tanti altri dimenticati dai più sino ad arrivare al numero incredibile di 46.

Ma se anche ci fosse stata, se anche un direttore di uno di quei settimanali che raccontavano sogni e bisogni di una generazione che con la musica iniziava ad affacciarsi alla Società avesse affidato a un mago dell'obiettivo come per esempio Marcello Geppetti o Rino Petrosino, credete che 50 anni dopo la stampa avrebbe pompato lo scatto come "foto del secolo" della musica italiana?

Quando mai. Loro, in Francia, hanno la Grandeur come punto di riferimento e tengono perciò a tutto quello che li riguarda, noi a casa nostra a farla da padrone è il "chissene" e spesso e volentieri neanche l'arrivederci e grazie è dovuto, come purtroppo si è verificato nel momento dell'addio di personaggi che comunque hanno accompagnato generazioni e segnato la storia del costume. Sipario.  


giovedì 21 maggio 2020

Lazio Campione, un popolo in festa

di FRANCESCO TRONCARELI


"Soltanto a Roma succede che uno stadio si riempia di quasi centomila tifosi. Ho vinto due scudetti nella mia vita, ma questo rimarrà come una delle gioie più belle. Una vittoria meravigliosa perché nessuno ha mollato, fino alla fine: né i giocatori, né l'allenatore, tantomeno i tifosi".

Così Roberto Mancini, leader della squadra che aveva stregato l'Italia con il suo gioco e le sue vittorie, commentava emozionato e felice la grande festa che si stava svolgendo all'Olimpico il 21 maggio del 2000, venti anni fa esatti, per celebrare tutti insieme apassionatamente lo Scudetto appena vinto.

Una festa di popolo cominciata a metà pomeriggio e andata avanti sino a notte inoltrata, in un tripudio di bandiere ed entusiasmo con giro di campo di tutti i protagonisti di quella lunga cavalcata iniziata il 30 agosto 1999 (Lazio-Cagliari 2-1) e finita il 14 maggio del 2000 alle ore 18 e 4 minuti con appendice di una sontuosa Coppa Italia quattro giorni dopo.


Lo Scudetto dei più forti vinto contro i Poteri forti del Calcio, lo scudetto dei veri Campioni d'Italia e Padroni di Roma come ricordava e ammoniva un maxi striscione posizionato sotto la Nord che dava il senso a quella serata.

Una festa spettacolare inziata con un'amichevole contro il Bologna per permettere a tutta la rosa di fare passerella, iniziata con il paracadutista Lino Della Corte che planava al centro del campo con la bandiera biancoceleste e proseguita con Attilio Lombardo versione clown che intratteneva il pubblico fra le risate generali.

Eppoi Enrico Montesano pirotecnico come sempre che in sidecar aveva fatto il giro dello stadio sul tartan con a bordo Eriksson, l'allenatore di quella squadra di fenomeni che per una volta senza l'elegante divisa sociale ma con la tuta da allenamento, percorreva tutto il campo avvolto in una bandiera tricolore.


Una scena mai vista, alla faccia della sua proverbiale compostezza svedese, mentre negli altoparlanti, a tutto volume, andavano le note di "We are the Champions" e nel cielo si stampavano enormi fuochi d'artificio.

E che dire di Sergio Cragnotti, il manager che aveva fatto fare il salto di qualità alla Lazio, lanciato in aria dai suoi ragazzi, uno spettacolo nello spettacolo.

Come quello messo su da Anna Falchi che, mantenendo la parola data a suo tempo, improvvisava uno spogliarello facendo venire giù tutto lo stadio per poi infilarsi la maglia di Mancini.

Un mini show elegante e all'insegna dell'ironia che veniva immortalato dai fotografi e dalle televisioni e subito rilanciato in prima serata dai telegiornali.


Che festa, che serata, quante emozioni. E' un altro Olimpico rispetto a quello di una settimana prima quello del 21 maggio di venti anni fa. E' un Olimpico traboccante d'entusiasmo, di felicità pura.

Niente più lacrime d'incredulità, solo un'esplosione travolgente di vitalità, un tutt'uno di bandiere biancocelestirossoverdi, uno spettacolo da brividi, un groppo alla gola che sale piano. E diventa un urlo unico, travolgente: Campioni d'Italia.

Nella notte romana di venti anni fa brillava una stella lucente più di tutte, la Lazio, Stella polare dei sogni di un popolo che non l'ha mai tradita e ora applaude i suoi eroi che sfilano in passerella.


Da Marchegiani, il numero uno che ha ceduto anche lui, alle meches dorate, via via, in progressione, con Favalli biondo e fino al 33 di Ravanelli, l'ultimo arrivato, il vecchio Penna bianca rivelatosi portafortuna.

E' un giro d'onore senza tregua con applausi a scena aperta, Salas, Nesta, Simeone, Gottardi, Nedved, Veron i più osannati, quelli che più colpiscono, per i motivi più disparati, l'immaginario del tifoso. Per tutti un abbraccio collettivo di ottantamila cuori.

E' una grande famiglia, quella biancoceleste, lo è sempre stata. Che sa cogliere il momento di gioia, viverlo con entusiasmo quasi intimo fino all'esplosione corale. Commovente poi all'inizio, l'omaggio tributato ai tanti fra dirigenti, tifosi, giornalisti, che questo momento storico avevano sognato.



Un sogno spezzato dal destino che se li era portati via prima che si avverasse, nomi simbolo come quelli di Giovanni Cragnotti, Tonino Di Vizio, Mimmo De Grandis. Nella eccitazione di una notte che non voleva finire mai, piovevano sul campo sciarpe e bandiere cilene e argentine come i campioni della squadra e c'erano anche le maglie rinverdite a tempo di record con la scritta più agognata "Campioni d'Italia".

"C'è solo un presidente" intonava l'Olimpico e il presidente ringrazia commosso, poi le luci si spensero e restano i riflettori tricolori sparati nel cielo. E' il segnale, fa il suo ingresso il camion scoperto e l'emozione contagia tutti.

I giocatori sono in piedi, raggianti, letteralmente trascinati sulle ali di un entusiasmo incontenibile. «E' lo scudetto di Roma biancoceleste. E' lo scudetto di voi tifosi», chiude così Cragnotti la festa di una squadra che appatiene da tempo immemore alla città e di un popolo che la segue.

Ed è il tripudio. Quello che tutti i laziali vorrebbero rivivere venti anni dopo. Padroni di Roma lo sono sempre stati del resto, è tempo di tornare Campioni d'Italia.


lunedì 18 maggio 2020

Lazio 1999-2000, squadra di campioni

di FRANCESCO TRONCARELLI



Quattro giorni dopo aver conquistato lo scudetto più emozionante della storia del Calcio, la Lazio conquistava a Milano la Coppa Italia, un'accoppiata fantastica che premiava la società di Sergio Cragnotti e soprattutto una squadra di Campioni nel vero senso della parola oltre che d'Italia.

Era il 18 maggio del 2000, esattamente venti anni fa quando Simeone e compagni alzavano il trofeo al cielo davanti migliaia di tifosi arrivati a San Siro per incoraggiare i biancocelesti e prolungare quel sogno iniziato alle 18 e 4 minuti del 14 maggio.

Erano scesi in campo praticamente senza allenamenti sulle gambe, reduci dai grandi festeggiamenti post titolo, stravaganti nel look con i capelli dipinti di giallo, blu e tricolori, una cosa mai vista che li esaltava come dei veri artisti del pallone, capaci di tenere a freno chiunque e con quel tocco di folle ironia che addolciva lo sport più bello del mondo.

Era bastata la grande vittoria nella finale d'andata giocata a Roma (allora si giocava in entrambi i campi delle finaliste) firmata in rimonta da Nedved e Simeone, per amministrare al ritorno il risultato e contenere gli assalti degli interisti e vincere così leggittimanante il trofeo.

Tutti erano pazzi per quella Lazio di campioni, tutti la applaudivano. Persino le Poste italiane sulla scia di una simpatia e stima che si stava facendo strada fra gli sportivi del Bel paese, decisero di stampare un francobollo celebrativo dello scudetto e di quella squadra nata per vincere.


Nell'anno del Centenario la Lazio centrava il Double, titolo e coppa nazionale, un trionfo che coronava l'impegno di Eriksson e di tutti quei calciatori con indosso la più bella maglia dopo quella con l'Aquila stilizzata, un successo che ripagava i tifosi per i torti subìti.

Quelle palesi ingiustizie che nessuno aveva difeso l'anno precedente quando alla Prima squadra della capitale venne scippato da "lor signori" un titolo meritatissimo. Una vergogna nella vergogna che la dice lunga su come vengono diffuse le notizie.

Dove erano infatti quei giornalisti della stampa cittadina che avevano accreditato la leggenda, smentita poi dai fatti e dagli interessati (Carlo Sassi alla moviola anni dopo), che "er go de Turone era bbono", quando Bobo Vieri aveva segnato un gol regolare ed incredibilmente annullato a Lazio-Milan?

Dove erano quei cronisti a voce imparziali di fatto con gli straccali giallorossi quando Marcelo Salas venne atterrato con un colpo di Karate a Firenze senza che l'arbitro muovesse un ciglio negando un evidente rigore? Erano impegnati a proteggere quelli dell'altra sponda, pieni da sempre come oggi di buffi e problemi vari, ma intoccabili da banche, poteri forti e mass media. 
 

Scudetto e Coppa Italia (la terza di una serie che si andrà sempre di più allungando con tanto di apoteosi il 26 maggio del 2013) dunque premiavano al di là di tutto e tutti un gruppo di talenti assoluti che insegnavano agli avversari il calcio e deliziavano la gente coi loro colpi e tocchi da fenomeni. Questo bastava ed era tanta roba.

La Lazio della stagione 1999-2000 infatti è stata sicuramente tra le squadre più forti degli ultimi trent’anni. Non a caso da quella rosa è uscita una quantità fuori dal comune di allenatori che stanno facendo grandi cose per i club o le nazionali, in cui si trovano. Da Roberto Mancini a Diego Simeone, da Simone Inzaghi a Sergio Conseiçao, da Nestor Sensini a Matias Almeyda, da Alessandro Nesta a Sinisa Mihajlovic.

Di questi grandi campioni passati dalla maglietta alla tuta Roberto Mncini era quello che già all'epoca, quando giocava, veniva considerato il secondo allenatore in campo, la longa manus di Sven Goran Eriksson, braccio e mente al tempo stesso delle sue strategie vincenti.

Battendo la concorrenza dell'Inter di Moratti, era arrivato alla corte di Cragnotti nel 1997 insieme all'allenatore svedese. Con la gloriosa casacca biancoceleste disputerà tre stagioni. Vince subito la Coppa Italia 1998 nella finale di ritorno disputata il 29 aprile contro il Milan e successivamente, il 29 agosto dello stesso anno, conquista la prima Supercoppa Italiana della storia laziale.


Nella sua seconda stagione realizza, tra le altre, una bellissima rete di tacco nella gara del 17 gennaio  contro il Parma e soprattutto guida la squadra con la sua esperienza, facendo acquisire a tutti i suoi compagni una mentalità vincente.

L'ultima edizione della Coppa delle Coppe nella finale di Birmingham contro il Real Mallorca e la conseguente Supercoppa Europea disputata a Montecarlo il 27 agosto 1999 contro gli "invincibili" del Manchester United (gol del Matador), lo vedono in prima fila col suo estro da numero 10.

Nella terza stagione in biancoceleste raccoglierà quello che aveva seminato in campo conquistando il tricolore coi suoi compagni e disputando l'ultima partita (541 presenze) di una lunga e prestigiosa carriera in serie A, proprio in quel Lazio-Reggina passato alla storia.

L'ultima in assoluto in una gara ufficiale con la Lazio sarà poi quella del 18 maggio, venti anni fa, nella finale di ritorno di Coppa Italia. Una storia insomma finita nel migliore dei modi, peraltro con il medesimo finale per tutti quei numeri uno che con lui divedevano gioie, tante e dolori, pochi di una squadra fortissima.


Una squadra di campioni diventati campioni d'Italia come i tifosi avevano voluto prima che vincessero il titolo ed avevano ribadito dopo, sino a scriverlo non tanto sui muri come si era sempre fatto, ma anche sulle banconote, divenute così testimonial di una vittoria e di una fede sportiva. 

Il primo a "marcarle" fu un bar di viale Jonio, seguito da un ristorante del Casilino e da un pub del quartiere Vescovio. I tre proprietari, laziali fino al midollo, avevano adibito i loro esercizi a centri di creazione e smistamento di banconote biancocelesti.

Le diecimila lire timbrate con l'aquilotto, lo scudetto e la scritta "Lazio campione d'Italia", diventarono subito un vero tormentone ambitissimo dai tifosi. Non certo un gadget ufficiale, come i vari zaini, sciarpe, magliette che venivano messi in vendita nei negozi specializzati, ma una sorta di oggetto di culto artigianale.

Un cimelio da conservare ma anche da smistare nei posti giusti. Smerciare le diecimila, le cinquantamila o le centomila "tifose" agli esercenti (giornalai, bar, negozi) romanisti in quel periodo era uno spasso. Del resto quelle banconote con la scritta diventata storia non avevano prezzo. Come quei campioni che fecero grande la Lazio nella stagione 1999-2000.






sabato 16 maggio 2020

Fiorello, 60 anni da numero uno

di FRANCESCO TRONCARELLI



E' il più grande di tutti. Degli amici e colleghi della sua generazione è senza dubbio quello che ha una marcia in più: il carisma. Ma anche l'irresitibile simpatia, la capacità di reinventarsi e di essere sempre sul pezzo, l'abilità di coinvolgere il pubblico e di farlo divertire con le sue gag, la sua intelligenza, i suoi numeri da showman di razza.

Fiorello compie 60 anni e il Bel paese applaude. E non può essere diversamente perchè l'artista siciliano è "lo" Spettacolo italiano, il fantasista capace di bloccare davanti lo schermo milioni di spettatori in un crescendo di battute e siparietti d'alta scuola del varietà, bravo a prescindere, un Walter Chiari 2.0 che elargisce buonumore e spensieratezza.

Una carriera che viene da lontano la sua, e che ha avuto nella strada la formazionne e la gavetta migliore. Prima di arrivare ai villaggi turistici della Valtur che gli consentirono di farsi conoscere, Fiorello ha fatto il meccanico, il muratore, il fruttivendolo, l'ambulante, l'addetto alle pompe funebri.

Era un animatore dentro a prescindere qualsiasi cosa facesse. Uno che a scuola arrancava confondendo il nitrito con il nitrato e, per strada, affinava l’arte del cazzeggio tutto il santo giorno. Chi agli inizi lo denigrava dicendo che era quello dei villaggi turistici non capiva che una palestra come quella vale più di qualsiasi scuola d’arte drammatica per fare un certo tipo di mestiere.

Ovvero cantare, imitare, recitare, ballare e intrattenere come in pochi sanno fare. Uno showman a tutto tondo, eclettico e trasversale. E' Rosario Tindaro Fiorello, uno dei protagonisti più amati della televisione, ma anche della radio e dei social. Fiorello "tav", "terrone ad alta velocità", come lui stesso si è sempre definto, è riuscito ogni volta a sorprendere e conquistare il pubblico tra numeri record e show evento.

Nato a Catania il 16 maggio 1960, ma cresciuto ad Augusta, primo di quattro fratelli, Anna (negoziante), Catena (scrittrice e conduttrice) e Giuseppe (attore), figli dell'appuntato della Finanza Nicola e della casalinga Rosaria, nel corso della sua lunga e variegata carriera, Fiore ha fatto davvero di tutto come dicevamo.


Animatore nei villaggi turistici della sua Sicilia fino alla partenza per il nord, Milano, con l'ingaggio dapprima a Radio Deejay da parte di Claudio Cecchetto che lo aveva scoperto poi a Mediaset con il karaoke che lo lanciò personaggio dell'anno con tanto di codino divenuto moda.

Eppoi il Festivalbar da conduttore, la partecipazione da cantante al Festival di Sanremo i fidanzamenti con le star del momento, ma anche la crisi che, confesserà, gli fu causata anche dall'uso delle droghe a metà anni '90, quindi un nuovo viaggio, quello della consacrazione, alla volta di Roma, direzione Mamma Rai dopo la clamorosa bocciatura di Pippo Baudo per Fantastico.

E' la rinascita di Fiorello, che si deve a due incontri fondamentali: quello con Susanna Biondo, nel 1996, la donna che sposerà nel 2003 e che le darà la figlia Angelica (oltre ad Olivia, nata da una precedente unione della Biondo, e che Fiorello ha sempre considerato come una figlia) e quello con il produttore bolognese Bibi Ballandi che lo farà approdare su Rai1 nel 2001 con il suo primo one man show 'Stasera pago io', con cui macinerà record d'ascolti, e che sarà solo il primo di una lunga serie di successi.

Non ultimo quello ottenuto lo scorso febbraio quando ha condiviso con Amadeus la fatica e il trionfo del 70esimo Festival di Sanremo dal palco dell'Ariston e sul quale probabilmente tornerà anche nel 2021 sempre a fianco dell'amico storico Amadeus, nel primo evento musicale di grande richiamo dopo l'emergenza del Coronavirus.

Fiorello ha 60 anni, incredibile ma vero per un Peter pan del divertimento che risulta sempre giovane. Ma è propro lui che ci ricorda la sua età con la solita ironia beffarda che non risparmia nessuno a cominciare da se stesso.

Qualche giorno fa quando si ventilava l'idea del prolungamento della quarantena per i sessantenni, reagì postando un video sui suoi profili social in cui tra l'altro commentava: "Amici, noi siamo a rischio e dobbiamo essere protetti, siamo come il panda, il colibrì dell'Himalaya, siamo in via di estinzione, quindi cari sessantenni, so che pensavate di essere ancora giovani e invece no, rientriamo nella categoria a rischio, mi rivolgo agli amici. Ligabue, tu non puoi uscire e pensa Baglioni e Venditti... proprio chiuderli... chiuderli".


Anche sul palco dell'Ariston Fiorello aveva ricordato il suo imminente compleanno, con un esilarante monologo sulla prostata: "Quando ero piccolo pensavo che i sessantenni fossero quasi morti, quasi ad avere la bara in salotto. Adesso ce li ho io, ma ancora mi sento in forma. Solo che quando vai dal medico per dirgli che hai un dolore, ti risponde: per l’età che hai, va bene così".

Quanto al ritorno sul palco dell'Ariston nel 2021, anche qui gag a piovere sulle dirette Instagram con l'amico Amadeus: "Mi convincera' pure stavolta, potrebbe essere l'ultima cosa. Faccio Sanremo, come va va, e chiudo la carriera. Mica devo andare avanti fino ad 80 anni. Ho fatto pure troppo. Largo ai giovani. Chiudo e basta". Riflessioni da clausura forzata per l'emergenza coronavirus, pensieri intorno ai 60 anni o una delle sue boutade? L'ultima opzione, state tranquilli.

A Fiorello piace sorprendere e cambiare continuamente le carte in tavola. E d'altra parte gli stop and go sono stati anche le caratteristiche della sua carriera. Come i vari momenti di spettacolo a cui ha partecipato. La prima volta sul palco dell'Ariston di Fiorello è stata nel 95, con "Finalmente tu" scritta dall'amico Max Pezzali.

Era il vincitore annunciato, ma arriverà quinto. Di strada ne ha fatta comunque lo stesso. Come imitatore per esempio con risultati quasi sempre esilaranti (ricordate Califano?) con oltre 100 personaggi presi di mira bonariamente. Come cantante, ha al suo attivo 11 album e 16 singoli, oltre a una dozzina di partecipazioni a brani di altri artisti come Giorgia, Max Pezzali, Biagio Antonacci e Fabio Rovazzi.

Ha recitato, spesso con camei, in sette film, compreso "Il Talento di Mister Ripley" (c'era anche il fratello Beppe) di Anthony Minghella in cui canta "Tu vuò fa l'americano"di Carosone e ne ha doppiati altrettanti. Sette sono anche i suoi spettacoli teatrali, l'ultimo dei quali è stato 'L'ora del Rosario' nel biennio 2015-2016. In radio il suo capolavoro è stato, dal 2001 al 2008, 'Viva Radio2', in coppia con Marco Baldini.

La tv è stata ovviamente il suo regno. Ha partecipato o condotto una trentina di spettacoli, dal mitico 'Karaoke' di quasi trent'anni fa su Italia 1 fino ai clamorosi successi su Rai1, di 'Stasera pago io' (2001-2004) e 'Il più grande spettacolo dopo il weekend' nel 2011, che raggiunse medie di ascolto stellari (13,5 milioni di spettatori con oltre il 50 per cento di share).


Il 2009 si è portato via l'amico del cuore Mike Bongiorno, complice di innumerevoli siparietti in spot e alla radio, ma Fiorello non dimentica e lo ricorda ogni volta che ne ha l'occasione, con lo slogan storico del presentatore di Rischiatutto, 'Allegria', e con il sorriso di sempre.

Fiorello ha vinto 11 Telegatti e 9 Premi Regia Televisiva (meglio conosciuti come Oscar della Tv), oltre a un numero incalcolabile di altri riconoscimenti, fra i quali perfino il prestigioso premio È Giornalismo, nel 2015, per il programma 'Edicola Fiore' da sempre un punto di rierimento per i suoi fan e in onda dal suo bar di quartiere insieme a una serie di personaggi esilaranti e stravaganti.

Le sue performance più recenti sono state l'appuntamento quotidiano di 'Viva RaiPlay!', e anche qui non si è dimenticato dell'amico Vincenzo Mollica e la partecipazione al video della cover Italian Allstars 4 Life, Ma il cielo è sempre più blu', in cui canta alcuni versi del brano di Rino Gaetano insieme a 50 star della musica italiana e a sostegno della Croce Rossa Italiana.

Insomma il più grande showman del week end ne fa 60 ma non li sente affatto. Del resto secondo l'ultima sua invenzione, ovvero l'abuso degli "ismi" nel parlato, c'è del sessantismo in giro e lui ne è il portavoce più qualficato. Auguri, Rosario sei nel Fiore degli anni.

mercoledì 13 maggio 2020

Stevie Wonder 70 anni di un genio: anche in italiano

di FRANCESCO TRONCARELLI



Icona della black music e messaggero di pace, Stevie Wonder compie 70 anni. E giustamente tutto il mondo si ferma per celebrare questa ricorrenza e tributargli un applauso ideale. E non poterebbe essere diversamente perchè questo artista ha fatto veramente la storia della musica a tutti i livelli ed è sulla cresta dell'onda da almeno sei decenni.

Da quando bambino prodigio (nato peraltro prematuro e cieco a causa di una retinopatia congenita che l'incubatrice non risolve ma peggiora) iniziò a incidere per la Motown, la leggendaria etichetta discografica di Detroit, diventando lui stesso nel tempo leggenda del soul e del pop a stelle a strisce.

Un vero e proprio fenomeno capace di suonare e bene, pianoforte, chitarra, armonica e percussioni, con all'attivo successi che gli hanno fruttato oltre cento milioni di dischi venduti, 25 Grammy Awards, un premio Oscar (La signora in rosso) e decine di altri riconoscimenti per brani conosciuti in tuttto il mondo come "Superstition", "For once in my life", "Isn't she lovely", "Master Blaster", "You are The Sunshine of my life" e "Overjoyed" per citarne solo alcuni.

Ma non solo. C'è anche una parentesi italiana nell'ambito della sua meravigliosa carriera che nessuno peraltro ha ricordato, dimostrando scarsa conoscenza non solo del personaggio (praticamente tutti hanno copiato e incollato la notizia del compleanno lanciata dall'Ansa senza approfondire), ma anche della nostra musica a prescindere.

E sì che uno Stevie Wonder che canta nella nostra lingua è una cosa insolita, degna di nota, ma tant'è e allora noi glissando sulla sua vita e carriera oltre le notizie basic che abbiamo dato, andiamo subito al sodo. Siamo negli anni ’60, la musica d’autore italiana impazza e fa il botto anche oltre la penisola. Siamo negli anni del boom economico e l'Italia viaggia che è una meraviglia anche musicalmente.


Il Bel paese che va a 45 giri che è una bellezza quindi, attrae anche i cantanti stranieri che piombano sul nostro mercato discografico che vende in quantità impressionante, per battere cassa coi loro successi. Paul Anka, Neil Sedaka, Pat Boone, Gene Pitney, solo per citare quelli più assidui che si alternano fra Sanremo e dischi per l'Estate senza soluzione di continuità.

Molti li ritroviamo al festival appunto, tempio della canzone italiana conosciuto anche all'estero e fra questi anche Wonder che ci arriva nel 1969, dopo un assaggio l'anno precedente in lingua italiana di un altro suo pezzo.

Storia particolare questa, perchè si tratta della cover di una cover di un suo brano. Il "ragazzo dagli occhi di ghiaccio" Dino infatti aveva inciso la versione italiana di "A place in the sun" pubblicata nel 67 da Stevie, con i titolo "Il sole è di tutti".

Quel pezzo di Dino andò fortissimo e spinse allora la Tamla a far incidere in italiano il brano al suo interprete principe Stevie Wonder appunto, che sfruttò l'occasione per venire da noi e fare qualche passaggio televisivo nelle trasmissioni più in voga del momento.

Il ghiaccio era rotto e così l'anno successivo, al Sanremo 1969 quando si cercò qualcuno da affiancare a Gabriella Ferri per la seconda interpretazione di "Se tu ragazzo mio", un pezzo che echeggiava atmosfere R&B scritto da lei stessa col padre Vittorio e il musicista Piero Pintucci, si pensò subito al grande Stevie Wonder.


Stevie negli USA ha già pubblicato 5 album, ed è considerato l'erede di Ray Charles anche se ha appena 19 anni. Sanremo è la kermesse ideale per farlo conoscere definitivamente al pubblico di casa nostra. Stessa cosa che avverrà per Wilson Pickett che sarà in coppia con Lucio Battisti e la sua "Un'avventura".

Aveva studiato in America il testo italiano del brano di Gabriella, poi l'aveva provato e inciso. Sul palco del festival arriverà letteralmente accompagnato dal direttore d'orchestra John Feedy, che lo condusse sino al microfono. La sua versione fu ineccepibile, viva, elettrizzante, ricca di pathos.

E lui fu talmente rapito da quel brano che una testaccina aveva reso soul, che quando lo cantò la Ferri, lui suonò da dietro le quinte l'armonica per farle il controcanto. Uno spettacolo nello spettacolo. Che nessuno però ha ricordato. Ma che è comunque una piccola gemma di una grande carriera. Auguri Mr Wonderful, ragazzo grande della nostra canzone.


martedì 12 maggio 2020

Mia Martini, 25 anni fa l'addio

di FRANCESCO TRONCARELLI


Il campanello non smette di suonare. Squilla a lungo, ma nessuno risponde. Nando Sepe, il manager, tiene il dito incollato sul citofono, ma niente. Eppure la Citroën verde di Mimì è parcheggiata là fuori, all'esterno di quella palazzina di due piani in via Liguria 2, a Cardano del Campo, provincia di Varese.

Sepe allora chiama la padrona di casa e si fa dare le chiavi in suo possesso. Ma la porta è chiusa dall'interno. Quando poche ore dopo i vigili del fuoco la sfondano, Mia Martini è stesa sul letto in pigiama, il braccio teso verso l'apparecchio telefonico, le cuffie del walkman sulle orecchie. Il suo cuore si è fermato ascoltando "Luna rossa".

"L'espressione è serena", diranno. È morta da quarantotto ore. La notizia rimbalza nei palinsesti televisivi. Renato Zero chiama Loredana Berté, la sorella di Mimì: "Spegni tutto, sto arrivando". I cronisti appostati sotto casa della Bertè ricordano ancora le urla. E, ricordo dopo ricordo, nonostante siano passati venticinque anni da quel terribile 12 maggio del '95, nessuno ha dimenticato la sua voce.

Nessuno ha dimenticato quella voce così speciale, che ti entrava dentro l'anima e ti scuoteva, una voce magnetica, dolce, scura, emozionante che la rendeva unica nel panorama musicale italiano come nessuno ha dimenticato quelle canzoni che Mia Martini ha regalato al nostro pop.

E non potrebbe essere altrimenti perchè la Martini aveva un carisma eccezionale e una padronanza del palcoscenico da grande interprete, caratteriStiche che la contraddistinguevano fra le altre colleghe  a cui abbinava però una sensibilità particolare che la rendeva fragile, troppo e che in certi momenti aveva il sopravvento sul suo essere donna amante della vita e del suo lavoro. 


Aveva 47 anni appena quando morì, secondo l'autopsia per una overdose di sostanze stupefacenti, anche se molti sostengono di farmaci. A lungo in ogni caso si è dibattuto sulle cause che determinarono quel decesso per cercare di dare una spiegazione a una fine triste e solitaria che faceva male a tutti, soprattutto dopo, a "cose" fatte.

Il difficile rapporto con il padre, la tormentata storia d'amore con Ivano Fossati, le maldicenze di cui era stata vittima nel mondo dello spettacolo che la portarono al ritiro dalle scene per diversi anni e i problemi di salute alle corde vocali sono tutti momenti che indubbiamente hanno segnato la sua esistenza che comunque è fatta anche di grandi successi in Italia e all'estero.

Aveva iniziato nei primi anni Sessanta. Un viaggio in treno da Ancona dove la famiglia si era trasFerita da Bagnara Calabra, verso Milano, Etta James e Aretha Franklin nel cuore, Carlo Alberto Rossi che le fa incidere i primi 45 giri, qualche concerto sulla riviera romagnola con Pupi Avati alla batteria.

La carriera da ragazza ye-ye però non decolla. Mimì sta per lasciare, inizia a lavorare al sindacato dei musicisti, ma la passione per la musica è troppo forte. Roma le restituirà la voglia di continuare e a sognare con l'amico di sempre Renato Zero.

La svolta avviene con l'incontro con Albertigo Crocetta, inventore del Piper e talent scout che ha scoperto e lanciato Patty Pravo, Mal e i Rokes. "Dobbiamo cambiare nome però, ci vuole un nome italiano riconoscibile nel mondo. Ho pensato a Martini", dice Crocetta riferendosi al liquore. "Va bene- risponde lei- però mi chiamerò Mia, come Mia Farrow", la sua attrice preferita. E la sua storia ha inizio.


Gli anni Settanta saranno i suoi anni. Inizia a collaborare in modo stabile con Baldan Bembo, Claudio Baglioni. Con Bruno Lauzi e Franco Califano scatta l'alchimia musicale. Sono questi due autori, che le cuciono addosso due brani diventati dei successi enormi che sono entrati nella storia del nostro pop.

"Piccolo uomo", scritto dal piccolo grande artista genovese (che poi diventò un suo amico) su musica di Dario Baldan Bembo e "Minuetto", scritta dal Califfo, due pezzi stratosferici che sanno di vita vissuta e trasformarono l’artista calabrese in una stella, le fruttarono la vittoria al Festivalbar e la corona di cantante dell’anno secondo la critica europea alla faccia delle dicerie sul suo portare male.

Per Ivano Fossati, che con lei ha condiviso una pezzo importante e trormentato di vita, Mia era "Una monomaniaca della musica". A lei regalò "E non finisce il cielo", una delle melodie d'amore più intense della nostra musica con cui partecipò per la prima volta al Festival di Sanremo nel 1982 ottenendo il Premio della Critica, istituito in quell'anno appositamente per lei e che a lei sarà intitolato dopo la sua morte.

Ma premi sinceri non le bastavano a tirare avanti per via delle maldicenze che affossavano la sua persona e indebolivano la sua personalità. Una chiacchiera pesante che la porterà a ritirarsi. Non sono sufficienti la stima, l'affetto, l'amore che le manifestano Charles Aznavour, Pino Daniele, Paolo Conte, Fabrizio De Andrè.

Mimì decide di darci un taglio. Si rifugia dalla sorella più grande Leda, in cerca di una vita normale. È il 1985. Sparisce per quattro anni, si trasferisce a Calvi, in Umbria, solo piccoli concerti di provincia, pochissimi. Poi una sera del dicembre del 1988 un incidente con la sua macchina da cui esce illesa e che la scuote da un tran tran provinciale facendola tornare in pista per riprendersi il suo mondo.

"Sai, la gente è strana, prima si odia e poi si ama, cambia idea improvvisamente, come fosse niente, sai la gente è matta, forse è troppo insoddisfatta, segue il mondo ciecamente, quando la moda cambia, lei pure cambia continuamente e scioccamente": è un brano firmato da Bruno Lauzi e Maurizio Fabrizio e rimasto nel cassetto dal 1972.

S'intitola "Almeno tu nell'universo" ed è il pezzo ideale per la ritrovata Martini che lo presenta a Sanremo nel 1989 ricevendo un'ovazione dal pubblico: La sua performance, i pugni levati al cielo, gli occhi chiusi, è da pelle d'oca, è una canzone che a una melodia coinvolgente abbina un testo struggente che Mia esalta con la sua voce. La Critica la premia nuovamente, ma quell'anno il festival avrebbe dovuto vincerlo lei.

Mia Martini torna a sorridere e a sentirsi viva. Verranno "La nevicata del '56", "Gli uomini non cambiano", "Cu' mme", tornerà il successo quello vero, gli applausi, la considerazione del pubblico.
Nel 1993, dopo un decennio di reciproci silenzi, corre da Loredana ricoverata in ospedale per il tentato suicidio dopo la fine col tennista Borg. Baci, abbracci e un progetto, tornare insieme a Sanremo. Lo faranno l'anno successivo con "Stiamo come stiamo".

Poi quello che sarà il suo testamento. Un album registrato dal vivo, con le cover dei brani dei cantautori che sente più suoi con un titolo che la dice tutta "La musica che mi gira intorno" come il brano di Fossati, nume artistico da sempre per lei e croce e delizia dei suoi rapporti con l'amore.

E' il canto del cigno che qualche malvagio voleva brutto anatraccolo, è l'ultimo acuto prima di quella fine drammatica di una storia bella e impossibile dedicata alla musica. Sono venticinque anni che Mimì non c'è più e il vuoto che ha lasciato è enorme. Restano a lenire questa mancanza le sue canzoni e quell'umanità che le animava rendendole vive e immortali.




lunedì 11 maggio 2020

Bruce Lee, dal Colosseo con furore

 di FRANCESCO TRONCARELLI



Una faccia da simpatica canaglia e un fisico da culturista. E soprattutto uno degli artisti atleti più influenti e rappresentativi di tutti i tempi, nonché l'attore più famoso nel mondo delle pellicole incentrate sulle arti marziali cinesi.

Quei film, realizzati a Hong Kong e a Hollywood, che elevarono a un nuovo livello di popolarità e gradimento racconti di storie orientali condite di combattimenti all'ultimo colpo proibito, tra salti in aria, calci al volo e piroette spettacolari fra il buono, Bruce Lee appunto, sempre vincitore e i cattivi, tanti e invidiosi della sua abilità ma che andavano sempre al tappeto.

Film d'azione dove il "piccolo Drago" e il suo Kung Fu lasciavano gli spettatori stupefatti, rapiti da quelle immagini che proponevano duelli epici e strabilianti. Sicuramente non dei capolavori della cinematografia ma comunque ideali per riempire le sale di seconda visione o prima di quartiere (l'America a Trastevere, il Madison a Ostiense, l'Arizona a Marconi) dove si affollava un pubblico attratto dai film d'azione e gli appassionati di questi sport. 

Il campione dei campioni era nato nella Chinatown di San Francisco durante una tournéè negli Stati Uniti della compagnia della quale facevano parte i genitori. Tornata a Hong Kong tre mesi dopo la sua nascita, la famiglia fece vivere gran parte dell'adolescenza di Bruce fra l'ex colonia britannica cinese e gli Usa, dove il futuro attore frequentò un corso di laurea in filosofia.


Talento versatile e con una giovinezza irrequieta addomesticata alla scuola di Kun Fu del maestro Yip Man, Bruce Lee trovò nel Cinema la sua strada, cominciando prima con particine in pellicole di genere e serie tv per poi passare al ruolo di protagonista, in film scritti da lui, in cui veniva ridisegnata la figura dei cinesi che nei film erano sempre visti come domestici o mafiosi.

Lee interpretò il suo primo ruolo da protagonista nei film Il furore della Cina colpisce ancora del 1971 a cui seguì Dalla Cina con furore del 1972, grazie ai quali ottenne un enorme celebrità internazionale. Forte di questo successo fondò una propria casa di produzione, la Concord Production Inc., in società con Raymond Chow della Golden Harvest.

Sotto tale egida co-produsse, scrisse, diresse e interpretò L'urlo di Chen terrorizza anche l'Occidente nel 1972, in cui fece comparsa anche Chuck Norris, divenuto poi uno degli attori più famosi di un certo cinema d'azione.

E questo è stato il film che ha portato nella Città eterna Bruce Lee per girare soprattutto gli esterni della pellicola, a cominciare da quelli nell'aeroporto di Fiumicino per proseguire nelle vie e strade del centro ed è il film in cui c'è la famosa scena del combattimento nel Colosseo, sulla scia dei Gladiatori che furono, che è diventata la più celebre nella storia del cinema di arti marziali.

Ma andiamo con ordine. Era l'11 maggio del 1972, quando una piccola troupe cinematografica scende all’Hotel Flora di via Veneto proveniente da Hong Kong. Il gruppo si era trasferito a Roma, per girare il più grande spot gratuito che il Colosseo, una delle sette meraviglie del mondo, avesse mai avuto.



Il  soggiorno del capobranco di quel gruppo di artisti e tecnici della cinematografia orientale, fu improntato oltre alle riprese anche alla visita delle bellezze dei monumenti e dei luoghi tipici come si conviene per chi sbarca nella Caput mundi.

Lee fu avvistato a pranzo dal "Bolognese" di piazza del Popolo dove addentò il Carrello del bollito, specialità della casa e alla Taverna Flavia di Mimmo Cavicchia dove, lui invincibile sul set e nella vita, fu steso clamorosamente da una mozzarella di bufala da tre chili.

Poi un salto alla Mondadori per acquistare il manuale di karate del maestro Augusto Basile, la scarpinata per salire su al Campidoglio per vedere la statua equestre di Marco Aurelio e la passeggiata a piazza Navona (dove saranno girate alcune scene) tra le fontane di Bernini e la maestosità della chiesa firmata da Borromini. Come un normale turista.

Già perchè Bruce Lee a Roma fece meno effetto del Marziano di Flaiano. Nessun servizio giornalistico, nessuna paparazzata in cronaca figurarsi un cenno in televisione. Uno, nessuno, centomila, confuso pirandelliamanete fra i tanti turisti in vacanza.



La solitudine da numero uno della sua trasferta in terra de noantri, si può condensare in una foto, magnifica, incredibile, inaspettata, che nella sua essenzalità dice tutto non solo di quelle giornate di permanenza a Roma del maestro di karate e dintorni, ma anche e soprattutto di un'epoca.

Il "Piccolo drago" è ritratto a piazza Navona, poco più avanti del Bar Colombia, in un posto che in quegli anni era da sempre "attenzionato" dalla Madama (la polizia) soprattutto la sera, per essere punto di riferimento di malandrini del rione, cascamorti con le turiste e travestiti di passaggio.

Dietro di lui una Pantera verde militare, la mitica Alfa Romeo con cui la piesse ingaggiava mirabolanti inseguimenti coi ladroni e banditi sparsi sul territorio, resa celebre in tanti poliziotteschi con Maurizio Merli e Luc Merenda. E' un'immagine quindi che parla da sola perchè riunisce a sorpresa due miti del Cinema anni 70.

Ma questa foto che nella casaualità dello scatto rappresenta un mondo che non c'è più, dice anche altro. Alle spalle di Bruce, con l'aria del finto tonto che invece è sempre sul pezzo, un maresciallone del Primo distretto competente per zona.

Con quei baffetti alla Saro Urzì che rimandano immediatamente alle atmosfere meridionali di "Matrimonio all'italiana" e col suo segno distintivo che lo contraddistingue, il cappello. Quello che una volta non poteva mancare sulla testa degli agenti della vecchia guardia come insegna l'"Indagine su un cttadino al di sopra di ogni sospetto" con Volontè.

Il sottufficiale è lì, vigile, ha osservato questo straniero dagli occhi a mandorla dall'aria strafottente e il giubbotto jeans come certi ragazzacci e lo cura. "Come si muove lo stango", il suo probabile pensiero preventivo nel timore di chissà quali comportamenti del nostro eroe. Ma ovviamente finirà tutto nel nulla.


Bruce infatti proseguirà la sua ricognizione fra turisti come lui e piccioni in cerca di cibo e all'indomani sarà nuovamente nella piazza per iniziare a girare con Malisa Longo e Nora Miao. Ma la ripresa che tutti ricordano del film e che ha fatto impazzire il pubblico nel mondo non è stata quella girata nella piazza, ma quella del duello nel Colosseo.

Il combattimento fra Lee e Norris richiese tre giorni di riprese e venti pagine di copione, dettagliatamente coreografate da Lee stesso. Il service che aiutò l'attore nelle riprese romane era fornito dal produttore Riccardo Billi, che sposerà l'attrice e modella Malisa Longo, scelta dal Re del Kung Fu per il ruolo della prostituta a piazza Navona.

Billi poi rifiuterà la proposta del karateka di investire 120 milioni di lire nel film successivo (Game of Death) giacché l'attore cinese era allora quasi sconosciuto fuori da Hong Kong e quindi secondo il nostro produttore il ritorno non sarebbe stato adeguato all'investimento. Errore clamoroso.

Ma la circostanza che sorprenderà molti non è tanto che non ci fu un seguito, ma che quella che è la scena clou del film, il combattimento appunto all’ultimo sangue fra Bruce Lee e il campione di Karate Chuck Norris assoldato da una banda di mafiosi per eliminare il Piccolo Drago, non si svolse nel vero Colosseo.

Incredibile ma vero. La troupe infatti non ottenne il permesso di girare dalla Sovrintendenza capitolina. Dovettero così ricostruire gli interni dell’Anfiteatro Flavio a Hong Kong, negli studios della Golden Harvest dove tornarono per completare il film.

Il primo esempio di riproduzione made in China, di un manufatto tipicamente italiano. Il primo di una lunga serie che dura ancora oggi.


venerdì 8 maggio 2020

Beatles, 50 anni fa "Let it be", l'ultimo disco

di FRANCESCO TRONCARELLI



Per chi ha amato e ama i Beatles, per i fan sparsi nel pianeta, aprile e maggio sono due mesi drammatici, da dimenticare. Il 10 aprile 1970, in una famosa "auto intervista" ripresa in prima pagina dal Daily Mirror, Paul McCartney annunciava la sua uscita dal gruppo, rendendo ufficiale la fine dei Fab Four e di fatto la fine di un'epoca.

Una settimana dopo veniva pubblicato il suo primo disco da solista e ad appena un mese di distanza, l'8 maggio 1970 era la volta di "Let It Be", ultimo atto ufficiale della band che aveva cambiato il mondo e che si congedava facendo uscire contemporaneamente anche un docufilm.

Un interessante ritratto diretto da Michael Lindsay Hogg, che raccontava le sedute di registrazione, compreso il leggendario concerto sul tetto del quartier generale della Apple Records di Savile Row a Londra, fra lo stupore generale dei passanti attratti da quella musica irradiata da lassù.

"Let It Be" era il lavoro di un gruppo che in quel momento era ben oltre la crisi. Paul spingeva per riprendere a fare concerti, George, sempre più frustrato per il poco spazio che veniva concesso alle sue composizioni, era invece il più fiero oppositore al ritorno al live.


E non solo, dopo una lite furibonda con John aveva lasciato la band. Lennon dal canto suo non nascondeva la sua voglia di andare da solo sotto la "scorta" di Joko Ono e la sua insofferenza per le scelte di Paul che cercava in ogni modo di assumere il ruolo di leader.

A ricucire gli strappi, era Ringo, per carattere votato alla mediazione. La situazione era così complicata fra i quattro, che alla fine i nastri delle sedute di registrazione dei vari pezzi erano rimasti abbandonati negli armadi.

La svolta da quella impasse arrivò con Phil Spector, il leggendario produttore del Wall of Sound che attualmente sta scontando in carcere una condanna a 19 anni per omicidio di secondo grado, che venne chiamto a completare l'opera.

Furono Lennon e Harrison a convincerlo a mettere mano a quei nastri e lui, con l'estro e la creatività che lo avevano reso uno dei migliori sulla piazza, lo fece a modo suo, intervenendo nell'editing e aggiungendo parti orchestrali e cori.

Il più famoso di questi interventi è rappresentato dagli archi di "The Long and Winding Road" inseriti a insaputa di McCartney che non ha mai digerito questa scelta, tanto da pubblicare nel 2003 la versione "naked", nuda, di quella bella e malinconica ballad.


Spector mago del missaggio e nume tutelare di tanti artisti, produrrà poi anche le prove soliste di Lennon ed Harrison, due capolavori del calibro di "Platic Ono Band" e "All Things Must Pass".

"Lei it be" dunque, ultimo atto di una storia meravigliosa iniziata bene e finita male, anche se negli anni si è svilupppato un dibattito fra appassionati e addetti, su quale sia l'ultimo autentico disco dei Beatles.

In molti infatti ritengono che l'ultimo atto sia "Abbey Road", nonostante sia uscito nel settembre 1969, e quindi parecchi mesi prima. In effetti Paul, John, George e Ringo avevano lavorato al progetto "Let It Be" prima di incidere "Abbey Road" che senza discussione è "un album dei Beatles" più di quanto non lo sia il disco del 1970 e rappresenta il vero testamento spirituale.

Il fatto che "Let It Be" fosse stato scartato dimostra l'inarrivabile grandezza dei Fab Four che, dopo aver inciso, con l'aiuto del tastierista Billy Preston, brani come "Let It Be", "Don't Let Me Down", "Get Back", "The Long and Winding Road" avevano lasciato i nastri in un armadio per dedicarsi ad un altro album.


Quando uscì, nonostante il successo commerciale, "Lascia che sia" fu stroncato dalla critica ed ancora oggi, quel progetto che di fatto era naufragato tra le liti non è considerato nonostante la fama di brani in esso contenuti, all'altezza di capolavori come "Revolver", "Sgt. Pepper" il "White Album" o appunto "Abbey Road".

Ma sono discussioni e argomenti per chi ama la loro musica ininfluenti, questioni se vogliamo di lana caprina come si dice, perchè considerare "minore" la produzione di canzoni come quelle citate fa sorridere, sono infatti brani che rimangono tra i più belli che loro abbiano inciso e che risplendono tuttora di luce propria.

Vero è che, nonostante siano passati cinquant'anni da quello scioglimento traumatico, ancora oggi sembra che i Beatles non abbiano mai smesso di suonare. E' l'effetto di una grande magia che non ha mai smesso di esercitare il suo fascino irresistibile.

Un'epopea pop che ha superato i confini del tempo pur essendo incredibilmente durata poco, meno di otto anni. La cronaca ci dice che cinquant'anni fa è uscito l'ultimo disco dei Beatles ma la loro storia non è finita.

Peter Jackson, il regista premio Oscar per "Il Signore degli Anelli - Il Ritorno del re", sta lavorando a una nuova edizione del docufilm uscito insieme a "Let it be" nel 70, grazie alla collaborazione di Paul, Ringo, Yoko Ono e Olivia Harrison.

Al regista sono state messe a disposizione infatti 55 ore di girato mai utilizzato, un vero e prorpio tesoro che sembra destinato a dare una lettura nuova sulla fase finale dei Beatles e ad assicurare ai fan un regalo prezioso. Della serie Beatles for ever.