lunedì 29 giugno 2020

Vittorio Gassman, 20 anni senza il Mattatore

di FRANCESCO TRONCARELLI 
 

Quell’appellativo, Mattatore, gliel’avevano cucito addosso come un abito su misura e gli è rimasto per sempre. Perchè lui era Vittorio Gassman, un gigante del nostro Novecento, un numero uno dello Spettacolo che moriva il 29 giugno del 2000 ma, come tutti i grandi, è più presente che mai. Voce possente, volto di una bellezza classica, capacità di spaziare dal registro drammatico a quello comico e una sensibilità che lo rendeva immenso sul palcoscenico e fragile nella vita.

Aveva scelto il giorno di San Pietro e Paolo, patroni di Roma, per andarsene nel sonno 20 anni fa esatti, lui che sul set aveva interpretato molti personaggi tipicamente romani, rendendoli al meglio sia nella versione popolare che quella più tipicamente borghese, ma non era romano Vittorio Gassman, figlio di un ingegnere tedesco, era nato a Genova e aveva passato una breve stagione a Palmi, per poi crescere nella Città Eterna e diplomarsi al Liceo Tasso e diventare una colonna della squadra di pallacanestro dei Parioli.

Non era romano Vittorio, ma sapeva esserlo più di tanti suoi concittadini, capace peraltro di mimetizzarsi in ogni regione per la sua maniacale precisione nel ripetere tutte le inflessioni dialettali e regionali, affinata all'Accademia nazionale d'arte drammatica, nella quale studiò con futuri "saranno famosi" come Paolo Stoppa, Rina Morelli, Adolfo Celi, Luigi Squarzina, Elio Pandolfi, Rossella Falk, Lea Padovani. Alla fine della sua parabola umana e artistica è stato così tanto romano da meritarsi (come solo Anna Magnani e Marcello Mastroianni) una doppia targa stradale nelle vie della sua città adottiva.


A trent'anni aveva già interpretato Amleto e Otello e quando apparve in televisione per condurre "Il Mattatore", una sorta di contenitore ante litteram dove lui primeggiava con il suo carisma e la sua arte, divenne un nome e volto popolare.  A Gassman riusciva tutto e apparentemente senza sforzo. Ma quando decise di mettersi a nudo, prima come attore e poi come uomo e svelò nella sua autobiografia i tarli dell'anima, si scoprì la fatica della perfezione, l'infaticabile ricerca del dettaglio, la necessità di superarsi ogni volta con precisione maniacale.

La sua passione era il Teatro, ma fu il Cinema a renderlo immortale per il grande pubblico e attore magistrale e insuperabile nell'immaginario collettico di un Paese in cerca di miti a tutto tondo capaci di poterlo ammaliare, emozionare e farlo divertire.

Gli anni Sessanta così si rivelarono molto gratificanti per la carriera cinematografica di Gassman, sulla scia del grande successo ottenuto nel 1958 con "I soliti ignoti" di Mario Monicelli, che ebbe anche due seguiti ("Audace colpo dei soliti ignoti", 1959, di Nanni Loy e il tardo "I soliti ignoti vent'anni dopo", 1985, di Amanzio Todini), dove tratteggiò un personaggio irresistibile di ladro arruffone e simpatico che lo distingueva dalle prime interpretazioni più drammatiche degli esordi.


Con Peppe "er Pantera", pugile suonato, dalla parlata incerta, ladro per caso, indossò una maschera comica che lo avrebbe accompagnato nella carriera per anni. Fu l'inizio di un'escalation inarrestabile che lo consegna alla storia della Commedia all'italiana, Gassman sarà infatti uno dei "quattro colonnelli" della risata insieme a Sordi, Tognazzi, Manfredi.

Questo nuovo registro espressivo lo rese complice di autori come Dino Risi, Luciano Salce, Luigi Zampa con Mario Monicelli in testa. Fu lui a disegnare il suo Brancaleone sul "Miles Gloriosus" plautino, così come Risi gli offrì lo spaccone disperato de "Il sorpasso" Bruno Cortona, quell'eccezionale road movie in cui viene raccontata l'Italia che si affacciava al boom economico, tra cambiali, vacanze di massa, risate e tragedie in agguato mentre Ettore Scola fu suo complice in tutto l'itinerario della maturità da "C'eravamo tanto amati" a "La terrazza" a "La famiglia". Tre capolavori.

Monicelli lo rivelò anche ottimo attore di ruoli tragicomici come in quello de "La grande guerra", e lui  acquistò in breve una vasta notorietà con prodotti più popolari, specie sotto la regia di Dino Risi oltre che col citato "il Sorpasso" con film come  "La marcia su Roma" (1962), "I mostri" (1963), "Il gaucho" (1964), "Il tigre" (1967) e "Il profeta" (1968). Sempre per gli schermi italiani, Gassman è tornato a lavorare con Risi "In nome del popolo italiano", 1971, "Profumo di donna", 1974, "Anima persa", 1977, "Caro papà", 1979, "Tolgo il disturbo", 1990.

Tutte pellicole di grande successo in cui Vittorio ha interpretato ruoli indimenticabili entrati nella storia del Cinema e nei quali ha dato il meglio della sua arte e capacità espressiva, ruoli in cui la sua fisicità aveva un aspetto importante seppur mitigato da una recitazione sempre intensa e mai sopra le righe, da grande animale da palcoscenico quale era.


Gassman era felicemente ammalato di vita, sprizzava giovialità, fisicità, intelligenza e per questo fu sempre compagno e complice dei migliori registi, mai semplice esecutore. Aveva fin da giovane la presenza scenica del prim'attore, ereditava il piglio roboante della generazione di Renzo Ricci (padre della sua prima moglie Nora), usava il corpo come strumento della sua arte. 

Se sul palcoscenico non ha mai avuto difficoltà a imporsi (tra i primi a riconoscere il talento ci furono Luchino Visconti, Luigi Squarzina e più tardi Giorgio Strehler) svariando con naturalezza dal repertorio classico a quello contemporaneo, al cinema dovette passare per piccoli ruoli fino a costruirsi una certa fama da "villain" e seduttore pericoloso come in "Riso amaro" di Giuseppe De Santis nel 1949 prima del grande boom peronale come attore di grande richiamo per riempire le sale, di cui abbiamo parlato.

Meno nota, ma non meno importante è la carriera internazionale di Vittorio Gassman: da sempre, grazie alla conoscenza delle lingue, lo cercano le produzioni internazionali e, dopo la rivelazione in "Guerra e Pace" (1956), dagli anni '70 in poi avrà i migliori registi: Robert Altman, Paul Mazursky, Alain Resnais, André Delvaux, Jaime Camino, Barry Levinson.

Si proverà anche come regista in proprio, riversando una buona dose di autobiografia in tentativi ambiziosi come "Kean" o "Senzafamiglia, nullatenenti cercano affetto" in coppia con Paolo Villaggio. Chiuderà la carriera là dove l'aveva iniziata, in palcoscenico, tra l'intensa recitazione di pagine poetiche, una memorabile edizione della "Divina Commedia" e lo spettacolo "Ulisse e la balena bianca" che è una sorta di testamento artistico ed esistenziale.

Classe 1922, Vittorio sognava di morire in scena e per poco non ci è riuscito. Spirito irregolare e controcorrente, ha dato "scandalo" nella vita privata con tre mogli e tre compagne, tutte molto amate, da cui ha avuto quattro figli, tre dei quali ne hanno seguito le orme. Spirito inquieto, paradossalmente è stato il meno "italiano" dei nostri grandi attori e forse per questo, pur tra tanti premi, non ha avuto quella gloria che, oggi lo scopriamo, meritava.

Desiderava un suo teatro ma solo dopo morto gli è stato intitolato il Quirino. Meritava l'Oscar ma lo prese Al Pacino al posto suo per il remake di "Profumo di donna" e si dovette accontentare di un premio a Cannes (per lo stesso film). La Mostra di Venezia gli ha dato il Leone d'oro alla carriera nel 1996, ma aveva avuto tutto il tempo per accorgersi di lui molto prima.

E' stato un gigante che in solitudine ha dovuto convivere con la depressione, un mattatore che dominava il pubblico ma non i dubbi e il buio che lo avvolgeva, un attore che recitava se stesso specchiandosi nei vizi e nelle virtù degli altri. E' stato Vittorio Gassman, un attore enorme che ha lasciato un ricordo indelebile della sua arte e della sua bravura. E un epitaffio sulla sua lapide al Verano originale e irriverente: "Qui giace Vittorio Gassman, fu attore, non fu mai impallato".

domenica 28 giugno 2020

La Lazio li ha fatti Viola. Le Pagelliadi

di FRANCESCO TRONCARELLI 




6 e mezzo al Panter One - La Lazio 2, quella post Coronavirus incerottata e piena di rincalzi, ha battuto in rimonta una Fiorentina disciplinata e arrembante scesa a Roma per il colpaccio. È stata una vittoria sofferta, dominata a lungo dal non gioco nostro ma comunque fondamentale perché fa morale e permette che il sogno continui. Quando sembrava tutto perso i biancocelesti hanno tirato fuori l'orgoglio e iniziato a scuotersi da quell'apatia che li aveva ingabbiati nell'Olimpico deserto e silenzioso e finalmente c'è stata la svolta. A propiziarla il Pupo biondo ecuadoriano che ha cercato, dopo la spintona del primo tempo subita e ignorata, il rigore. E da quel momento è tornata l'Aquila. Avanti Lazio avanti laziali. 

6 e mezzo al Ciro d'Italia - Quando ha messo la palla sul dischetto, aveva milioni d'occhi che lo puntavano. Provateci voi. E lui zacchete. E sono 28. E scusate se è poco e se qualcuno se lo magna.

6 e mezzo a Lupo Alberto - Il bamdolero stanco è tornato. Questa volta era lui no Alberto Lupo. S'è tagliato quei capelli lunghi e unti che lo facevano sembrare un povero Cristo e con la sfumatura alta fresca di barbiere ha compensato il culo basso che lo contraddistingue. Et voilà riecco il Mago con un coniglio tirato fuori dal cilindro messo proprio sul palo di quel bulletto del portiere hipster dei toscani. Oh, aveva la maglia rossa, dopo quella pezza millimetrica che l'ha bucato è diventata viola dalla vergogna. Tiè, pija incarta e porta a casa. Barbun!

6 + ad Antonio Elia Acerbis - Ma quanto je volemo bene a sto ragazzo. Bravo sul campo e fiero dell'Aquila sul petto. E andiamo.

6 a Innamoradu - Nei secoli fedele. Anche oltre.

6 a Lazzari alzati e cammina - Il solito motorino. Le corse a palla però alla lunga mandano in tilt. Guardate Giuseppì, promesse di soldi a raffica ma poi nun è arrivato niente a nessuno.

6 a Correa l'anno 1900 e Somarusic - Buttati nella mischia per fare ammuina e partecipare al trionfo. Della serie finché dura da verdura come disse Luca Sardella.

5 e mezzo a Patric del grande Fratello - Nella serata dei grandi ritorni, anche l'ex zazzera non poteva mancare. E così puntuale la cappellata in occasione del vantaggio avversario. Vabè, davanti aveva un mostro come Ribery, evidentemente sotto a botta è rimasto impressionato. Vedi Tammurriata nera, Nuova Compagnia di Canto popolare.

5 e mezzo al Sergente - Provaci ancora Ciccio e nun te incazza'.

5 e mezzo a Sylva Strakoshina - tre tiri: un gol, una parata e una botta de culo (traversa). In perfetta media.  

5+ a dillo a Parolo tuo - E glielo vorremmo dire, ma come si fa a dirgliene quattro a uno stacanovista come lui che ha combattuto mille battaglie e le ha vinte pure. In cabina di regia per assenza dei titolari delle riprese ha fatto la fine di Jerry Calà quando ha girato il suo primo film, un flop. A un certo punto sembrava una delle tristi sagome piazzate in Tevere, era fermo come loro. Speriamo che la vittoria lo ringalluzzisca. Come Amadeus ringiovanito di colpo con gli ascolti dei Soliti ignoti.

4 e mezzo a Meco Ioni - ma sto rubagalline ce serve o nun ce serve? Si accettano proposte e soluzioni alternative. 

4 a basta Bastos - Dice che era fuorigioco, certo, ma lui non lo sapeva e resta il dramma che a porta vota s'è magnato un gol che manco il Pannella dei digiuni storici. Dall'oroscopo di Branko la Luna consiglia: se avete i piedi fucilati, date retta, cambiate attività, il cameriere non fa per voi per quello bastano piatti. Sipario.



Appunti di gioco di Roberto Taglieri 

Sabato, 27 giugno 2020 La Lazio vince col fiatone. 

Nell’anticipo della 28 sima giornata all’Olimpico la Fiorentina va in vantaggio nel primo tempo con il gol di Ribery, ma viene raggiunta da un rigore trasformato da Immobile e superata grazie ad un gol siglato da Luis Alberto per il 2-1 finale dopo una partita soffertissima. Dopo la batosta di Bergamo, Inzaghi senza Leiva, Marusic e Luis Felipe perde anche Cataldi e non può fare affidamento su Radu affaticato. C’è Bastos dal primo minuto, a centrocampo gioca Parolo infine davanti c’è Caicedo. Anche Iachini ha problemi di formazione: a parte l’infortunato Kouamè, mancano per squalifica Caceres, Iachini e Chiesa. Squadra un po’ rabberciata quindi, con Dalbert dietro a Cutrone e Ribery. La Lazio inizia facendo girare bene il pallone soprattutto a destra, dove Lazzari sembra in ottima forma, ma il primo tiro in porta è di Ghezzal al 18’, col pallone deviato che termina fuori. I ritmi non sono alti, è una partita tattica ma l’equilibrio lo sblocca Ribery, che al 25’ dalla sinistra mette tutti a sedere, si accentra e sigla un bellissimo gol che porta la Fiorentina in vantaggio con la difesa laziale imbalsamata. Parolo sfiora il pareggio dopo un attimo, colpendo bene di testa su calcio d’angolo ma Dragowski si oppone, poi non ci sono altre opportunità fino alla fine del primo tempo. Prima dell’inizio della ripresa c’è un cambio per parte, con Radu che rileva Bastos e Igor al posto di Dalbert e subito la Viola potrebbe raddoppiare con Castrovilli, su cui è bravissimo Strakosha. La Lazio non sa gestire le ripartenze veloci degli avversari, che sono molto pericolosi se attaccano ed al 48’ colpiscono una traversa con Ghezzal, ancora in contropiede. Al 60’ un gran tiro di Milenkovic si perde sul fondo, mentre da parte laziale il primo tiro serio è di Jony al 64’, ma il pallone fortissimo va out. Al 67’ Dragowski atterra Caicedo, che in verità si lascia cadere un istante prima, ma Fabbri assegna ugualmente il rigore. Batte Immobile che trasforma, spiazzando il portiere e ristabilisce la parità. Poco dopo l’ingresso di Correa, Immobile potrebbe raddoppiare ma spedisce altissimo da ottima posizione e sul capovolgimento Ghezzal sfiora il palo destro di Strakosha. La Lazio nell’ultimo quarto prova a spingere, Inzaghi butta dentro Marusic e Lukaku, ma l’eroe del giorno è Luis Alberto. Lo spagnolo, che aveva dormicchiato per tutta la partita all’83’ ha spazio centralmente, si destreggia su Pezzella e con una rasoiata di destro a fil di palo batte Dragowski e porta i suoi in vantaggio. Nei minuti di recupero Fabbri espelle Vlahovic per una gomitata a Patric, poi viene espulso anche Inzaghi per proteste e questi sono gli ultimi sussulti di una partita difficilissima, che la Lazio riesce far sua con una gran fatica. I biancazzurri con i tre punti d’oro di stasera si attestano a quota 65 e mantengono la scia della Juve capolista. La Lazio dimostra ancora grandi limiti di tenuta fisica: anche oggi la squadra di Inzaghi ha sofferto atleticamente i suoi avversari, ma stavolta ai biancazzurri è andata di lusso. E tra soli 3 giorni si ricomincia con i capitolini in trasferta a Torino per un’altra gara difficilissima. Questo campionato senza respiro non si ferma mai, ma la Lazio c’è ancora.


LAZIO FIORENTINA 2–1 

25' Ribery 68’ Immobile (rig) 83’ Luis Alberto

LAZIO: Strakosha, Patric, Acerbi, Bastos (46’ Radu), Lazzari (81’ Marusic), Milinkovic, Parolo, Luis Alberto (90’ Anderson), Jony (81’ Lukaku), Caicedo (70’ Correa), Immobile. All Inzaghi

FIORENTINA: Dragowski, Milenkovic, Pezzella, Ceccherini (75’ Venuti), Lirola, Castrovilli, Badelj (84’ Sottil), Ghezzal, Dalbert (46’ Igor), Cutrone (63’ Vlahovic), Ribery (84’ Pulgar). All. Iachini

Arbitro Fabbri

giovedì 25 giugno 2020

Lazio, harakiri a Bergamo. Le Pagelliadi

di FRANCESCO TRONCARELLI



6 e mezzo al Sergente - Quella che ha perso a Bergamo non era la Lazio che abbiamo applaudito a scena a perta sino a 116 giorni fa. Quella non avrebbe perso dopo essere andata in vantaggio di 2 gol. Questa è un'altra Lazio, ancora da rodare, rimaneggiata già in partenza e con subentri in corsa da dimenticare. Infatti invece di tenere palla e ripartire, ha ceduto metri e soprattutto forma favorendo il ritorno degli avvesari, che saranno pure maniscalchi veri ma anche palleggiatori de fino. Milinkovic è così il testimonial di questa partita che ci aveva illusi. Bravo, bravissimo (che gol!) per trenta minuti, è andato via via calando come del resto tutta la squadra, titolari e (si fa per dire) riserve. Bisogna ritrovare le energie perdute e fare quadrato, bisogna stringersi sempre di più intorno a questi ragazzi. Perchè questi abbiamo. Avanti Lazio, avanti laziali.

6+ a Lazzari alzati e cammina - E ha camminato, tanto, praticamente ha precorso le tappe, nè più nè meno di Casalino che dal programma più insulso e da guardani di Canale 5 è arrivato a palazzo Chigi. Poi ha tirato i remi in barca. Sperem, come avebbe detto il paron Rocco quindi, che anche per il suo ispiratore accada lo stesso.

6+ ad Antonio Elio Acerbis (Lazio del meno 9)  - Il Ministro della Difesa è lui, non certo quello messo da Conte di cui nessun sa il nome. Ha retto da solo il reparto ed è stato il più continuo, ma se poi il risultato generale è stato un harakiri alla grande che neanche i giapponesi più tosti avrebbero messo in atto, anche la sua prestazone ne risente. Come Amadeus senza pubblico ai Soliti ignoti.

6 a Correa l'anno 1900 - E' il Rocco Siffredi biancoceleste. E' durato venti minuti.

6 a Massimo Di Cataldi - Bravo ma sfortunato. Come Fiorello, che pur standosene buono da un paio di mesi, ieri ha mandato a fuoco casa sua. Così il laziale dalla nascita che nonostante un andamento lento (la sua caratteristica di impostazione) che comunque aveva garantito un certo tran tran a nostro favore, sì è infortunato da solo lasciandoci co 'na scarpa e 'na ciavatta, quelle di Parolo.

6 a Patric del Gande fratello - Lo abiamo ritrovato come lo avevamo lasciato a febbraio. Senza zazzera e col capello scuro e sicuramente più calciatore e meno caciarone. Alla fine dovremmo attaccarci anche a uno come lui, che una volta nun je avresti dato 'na lira, per sperare di ritornare grandi. Nun ce se crede.

6 a Innamoradu - La vecchia guardia non si arrende. E' la Lazio in toto che si è arresa all'evidenza. Nun jela facevano più. Nè più nè meno di Nino Frassica al nuovo programma di Carlo Conti.

5 al Ciro d'Italia - Ei fu siccome Immobile. Manzoni aveva previsto tutto per il dopo lockdown.

5- a Meco Joni - Come un programma di Gigi Marzullo. Un'ora abbondante di niente.

5 - a Lupo Alberto - Solo la corsa col freno a mano tirato poteva trarre in inganno che fosse lui. In realtà era un altro. Alberto Lupo, riesumato alla bisogna per tentare il colpo a sorpresa. Mancava Mina e il duetto in mezzo al campo sarebbe stato perfetto. Sono arrivate solo le "Parole parole parole" dei tifosi innervositi dai suoi tentennamenti.

5 - - a Sylva Strakoshina - Qualche indecisione, qualche papera, qualche pezza messa bene. Praticamente è rimasto in isolamento a Formello quando si allenava coi giardinieri. Sveglia!

4 e mezzo a Ander Son mi, Lukakau Meravigliau e al Panter One - In tre non ne hanno fatto uno buono. Come Aldo, Giovanni e Giacomo spariti dalle scene. Sipario. 


Appunti di gioco
di Roberto Taglieri

Mercoledi, 24 giugno 2020

Al “Gewiss Stadium” la Lazio esce sconfitta per mano dell’Atalanta. I biancazzurri giocano alla grande solo la prima mezz’ora e vanno avanti addirittura di due reti, poi cedono completamente e sono superati nella ripresa: 3-2 il risultato finale. Esattamente 116 giorni dopo l’ultima partita disputata all’Olimpico contro il Bologna, i biancazzurri post-virus ripartono in campionato contro l’Atalanta. I nerazzurri, già vittoriosi nella partita che è stata quasi un allenamento col Sassuolo, arrivano a questo scontro con Pasalic in campo ed Ilicic che va in panca; Toloi in difesa prende il posto di Caldara ma per il resto la squadra è la stessa di domenica. Inzaghi invece fa i conti con molte assenze. A parte il lungodegente Lulic, anche Luis Felipe, Leiva e Marusic non possono essere della partita. A sostituirli Patric a destra, Jony a sinistra e Cataldi in mezzo al campo. Davanti Luis Alberto è la spalla di Immobile e Correa. Proprio Immobile già all’inizio ha una buona opportunità ma il suo tiro finisce fuori. Al 4’, dopo un grave errore di Strakosha che poteva innescare Zapata, arriva la prima rete della Lazio. La discesa di Lazzari è travolgente, il cross al centro è intercettato da De Roon, che da due passi la butta nella sua rete nel tentativo di respingere. Passano pochi minuti e arriva addirittura il raddoppio biancazzurro: dopo un rimpallo il pallone arriva sui piedi di Milinkovic, che non ci pensa due volte e di destro dai 20 metri riesce a sorprendere Gollini con una bellissima traiettoria a girare. La gara è molto combattuta, pur se i ritmi non sembrano altissimi. Al 26’ Immobile sfiora il tris e un istante dopo anche Zapata si mangia il gol dopo una respinta corta di Strakosha. Passano pochi istanti e Immobile dopo una contropiede fulmineo colpisce il palo esterno a botta sicura. Il tiro di Malinovski alla mezz’ora è parato da Strakosha, poi quello di Correa da Gollini. La pressione bergamasca aumenta ed alla fine Gosens di testa accorcia con un tiro nemmeno irresistibile ma preciso, che scavalca il portiere laziale. Nella ripresa subito Freuler prova la conclusione a botta sicura ma trova solo un angolo, poi anche Djimsiti ci prova ed ora la Lazio soffre. Esce Correa per Caicedo, poi si fa male Cataldi ad un ginocchio e Parolo lo sostituisce al 59’. I biancazzurri non riescono più a ripartire e subiscono il gol da Malinovski, che da fuori area azzecca la grande giocata imparabile per Strakosha. La Lazio cala vistosamente di forma; Acerbi riesce a salvare sul nuovo entrato Muriel prima del gol della vittoria di Palomino, che all’80’ approfitta di un grave sbaglio di Strakosha per inzuccare di testa quasi indisturbato, mentre Caicedo lo osserva senza intervenire. Nel finale Strakosha salva su Gomez, la Lazio tenta il tutto per tutto ma visibilmente in affanno non costruisce un granchè e dopo 5’ di recupero il fischio di Orsato sancisce la sua terza sconfitta in campionato. Dopo quel rocambolesco pareggio del 19 ottobre, che aprì la serie di vittorie della squadra capitolina., i biancazzurri arrestano la loro corsa proprio contro l’Atalanta. Mettendo da parte la sfortuna, tipicamente laziale, che ha voluto stupirci addirittura con una pandemia, probabilmente senza Covid i biancazzurri avrebbero forse avuto i favori del pronostico, con le altre che intanto sprecavano energie nelle coppe. Ormai il possibile gap si è azzerato e questo è diventato un altro campionato. La Lazio si lascia sfuggire il contatto con la testa: ora sono 4 i punti di distanza dalla Juve capolista, che invece continua a non perdere battute. Nulla è perso ma c’è da giurare che saranno 11 battaglie quelle che attendono gli uomini di Inzaghi da qui alla fine, caldo estivo incluso.     


ATALANTA   LAZIO  3-2   5’ De Roon 11’ Milinkovic 38’ Gosens  66’ Malinovski  80’ Paolomino
LAZIO: Strakosha, Patric, Acerbi, Radu (75’ Bastos), Lazzari, Cataldi (59’ Parolo), Milinkovic, Luis Alberto (77’ A. Anderson), Jony (77’ Lukaku), Correa (55’ Caicedo), Immobile.  All: Inzaghi
ATALANTA: Gollini, Toloi, Palomino, Djimsiti, Hateboer, De Roon, Freuler, Gosens (69’ Castagne) , Malinovski (77’ Ilicic),  Gomez, Zapata (69’ Muriel). All. GasperiniArbitro Orsato
 

lunedì 22 giugno 2020

"Estate", 60 anni di un boom

di FRANCESCO TRONCARELLI

      Estate
      Sei calda come i baci che ho perduto
      Sei piena di un amore che è passato
      Che il cuore mio vorrebbe cancellare


Ci sono canzoni di ieri che si ascoltano ancora oggi. Brani senza tempo che hanno superato la generazione di riferimento per conquistare quelle successive e regalare grandi emozioni a chi le ascolta come fosse la prima volta.

C'è un artista di cui si parla poco da sempre e intorno al quale il silenzio continua ad essere assordante oggi come lo era ieri. E c'è un anniversario che è d'obbligo ricordare per rendere omaggio a quell'artista e alla sua musica senza tempo che continua ad essere suonata ovunque.

L'artista è Bruno Martino, pianista di talento ed autore di rara sensibilità conosciuto negli anni di maggior splendore come il "Re del night", la canzone è "Odio l'estate" che lui incise nel 1960, come un inconsapevole omaggio alla prima stagione in cui L'Italia scopriva le vacanze di massa in un decennio che avrebbe inciso profondamente nel Costume.

La ricorrenza quindi è di quelle da sottolineare con l'applauso, perchè si riferisce ad uno dei brani più belli in assoluto della "musica leggera", un pezzo che è diventato nel tempo uno standard internazionale inciso dai nomi più importanti della musica e del jazz che è stato firmato proprio da Martino.

Di solito quando un autore riesce a superare i confini di riferimento con la sua musica, viene considerato un maestro, un punto di rifermento per tutti, ma nel nostro Paese spesso e volentieri come abbiamo visto, nemo profheta in patria e anche Bruno Martino ha dovuto subire questo trattamento da parte degli addetti ai lavori, salvo i classici riconoscimenti postumi quando ormai servivano a poco.

Bruno Martino e Brighetti

Per nostra fortuna, a squarciare fragorosamente questo silenzio che gli hanno riservato i media, ci hanno sempre pensato le sue canzoni, raffinate eppure popolari, alcune delle quali come dicevamo, sono arrivate con le loro atmosfere irresistibili ai giorni nostri: due in particolare “Odio l'Estate (Estate)” e “E la chiamano estate” firmata nel testo da Franco Califano.

Composta nel 1960 da Bruno Martino e da Bruno Brighetti musicista del suo complesso ed autore di altri successi, “Estate” nacque in un modo singolare. Brighetti scrisse infatti il testo in preda a un’intossicazione di frutti di mare. E il riferimento a quella situazione particolare conosciuta solo da lui, lo certificò nel titolo del brano, che originariamente era "Odio l'estate". 

Il pezzo fu accolto tiepidamente da un pubblico troppo desideroso di musica vacanziera e di ritmi pù intonati alla stagione frenetica delle vacanze come il twist e dintorni. Ci penserà anni dopo Joao Gilberto, sofisticato guru della musica brasiliana, a spingerla verso un destino sicuramente migliore e un successo planetario.

La sua versione minimalista, a cominciare dal titolo, a cui tolse quell'"odio" di troppo facendola diventare semplicemente "Estate", così delicata e ricca di pathos e sottolineata dalla inseparabile chitarra, fornì una risonanza eccezionale a quella canzone che da quel momento iniziò a viaggiare da sola, facendo il giro del mondo.

Il pezzo da allora è stato così amato e apprezzato dai jazzisti, che l' hanno incluso nel loro repertorio di standard al pari dei classici americani. Nomi come Shirley Horn, Chet Baker, Michel Petrucciani, Mike Stern, Toots Thielemans per citare solo alcuni dei più famosi, a cui si sono aggiunti quelli dei nostri Vinicio Caposela, Sergio Cammariere, Mina, Ornella Vanoni, Irene Grandi, Mauro Ermanno Giovanardi con i La Crus.

Romano, classe 1925, Bruno Martino iniziò come pianista dell'orchestra di Piero Piccioni, poi passò con Trovaioli e dopo aver suonato in alcune formazioni jazz della Capitale, lasciò l'Italia lavorando con successo in diversi locali notturni del nord Europa dedicandosi a un genere che mescolava jazz, canzoni napoletane e sue composizioni.

Lo accompagnava il suo gruppo formato da Ole Jorgensen alla batteria, Carlo Pes alla chitarra, Luciano Ventura al contrabbasso, Bruno Brighetti alle trombe e alla fisarmonica, un quintetto con lui di grandi musicisti che in migliaia e migliaia di serate dal vivo acquisirono una professionalità unica, come del resto tutti gli artisti che si esibivano nei locali notturni.

Bruno Martino e il suo complesso

Era l'Italia che scopriva il divertimento d'élite, cosmopolita e malizioso dei night club, una scuola misconosciuta e preziosa dalla quale emersero molti protagonisti della canzone come Fred Bongusto, Marino Marini, Umberto Bindi. Fra tutti questi, Bruno era il più discreto, una voce di velluto soffiata su eleganti note di pianoforte.

Il suo volto e quel sorriso lo facevano sembrare uno di quegli attori americani dei grandi film in bianco e nero ed evocavano al tempo stesso serate fumose e alcoliche da piano bar, ma il valore aggiunto di questo artigiano allevato alla scuola del jazz del dopoguerra erano appunto la voce e il piano che suonava divinamente.

"Estate", "Sabato sera", "Che sarà di noi", "Prova a darmi un bacio", "Quando un giorno", "Cos'hai trovato in lui", "Baciami per domani", "E la chiamano estate", canzoni d'amore malinconiche e struggenti, piccole novelle estive, storie di gelosie mai rancorose, narrate e suonate in punta di voce e tastiera.

Ma anche brani frizzanti che servivano per ravvivare le serate al momento giusto, tra una coppa di champagne o un più modesto gin tonic, pezzi come "A.A.A. Adorabile cercasi", "Sono stanco", "Dracula cha cha cha" (Vampiro dal nero mantello perchè non ti succhi un bel pollo e lasci le donne campar) e "Nel 2000" (nel 2000, noi non mangeremo più né bistecca, né spaghetti col ragù..."), e che a riascoltarla oggi fa un certo effetto, essendo, per un destino beffardo, proprio l' anno della sua scomparsa.    

Martino a Sanremo
La maliconica che accompagna la fine di un amore estivo che fa odiare quella stagione solitamente felice, negli anni ruggenti dei tipi da stessa spiaggia stesso mare, boom economico con tanto di pinne fucile ed occhiali, era un'idea forte e rivoluzionaria che venne apprezzata nel tempo, insieme alle altre sue canzoni sussurrate in uno stile di sorniona eleganza e indiscutibile classe da crooner navigato.

La sua è stata una lezione di una grande melodia spoglia di ogni contorno ridondante, un perfetto equilibrio tra musica e testo, caratteristico del suo essere un tipo discreto che, come sottolineò il suo amico Sandro Ciotti, si rifiutò sempre di diventare un personaggio per rimanere una persona.

Martino che se ne andava venti anni fa esatti per un arresto cardiaco, era un signore molto distinto, garbato, un romano verace che aveva visto il mondo, e proprio per questo preferiva rimanere appartato dal vociare chiassoso del mondo della canzone, forse proprio perché cresciuto col jazz e nell'ambiente intimo e confidenziale dei night. Le sue canzoni  che facevano sognare lo confermano, la sua "Estate" sessant'anni dopo lo ribadisce con tutto il suo struggente splendore.


mercoledì 17 giugno 2020

Ossessione 70, la canzone del Mundial

di FRANCESCO TRONCARELLI



Tempo di rievocazioni, di ricordi e nostalgie per un calcio che faceva sognare in bianco e nero, la ricorrenza dei 50 anni di quella che enfaticamente ma non a torto è stata definita "La partita del secolo", con tanto di targa nello stadio Atzeca dove fu giocata a futura memoria, ha scatenato i più contrastanti sentimenti fra chi c'era e l'ha vissuta "minuto per minuto" con la telecronaca del mitico Nando Martellini e chi l'ha sentita raccontare da genitori e nonni e se l'è andata a cercare poi su youtube.

Tutti ne parlano e ne parleranno oggi, esattamente mezzo secolo dopo quella epica sfida, i giornali ne hanno dato ampio risalto, le televisioni in ogni telegiornale hanno un servizio pronto, anche le radio private in attesa del ritorno al campionato ne stanno facendo cenno e non può essere diversamente, perchè se partita entrata nella storia del Calcio è stata quell'Italia-Germania, così deve essere.

E in questo "bombardamento" di immagini e ricordi ci inseriamo anche noi con la musica, convinti che nessuno fra i vari opinionisti e storici del pallone ne farà cenno. Ci riferiamo alla canzone che Fausto Cigliano, protagonista della scena musicale dei favolosi 60 prima e chitarrista di fama internazionale dopo, dedicò a quell'Italia che entusiasmò una Nazione intera, facendola scendere in piazza a festeggiare con il Tricolore, la bandiera che in quegli anni poi diventati e definiti di "Piombo" nessuno aveva in casa o tanto meno la sventolava allo stadio.

"Ossessione 70" s'intitola quel brano magico, un pezzo molto curioso (per il testo) e molto accattivante per la musica, una bossa nova incalzante e avvolgente che ti entra dentro con un pizzico di nostalgia e un pizzico di esotismo. 

Cigliano scelse non casualmente la bossa nova, visto che fu proprio il Brasile ad infrangere il sogno italiano di conquistare definitivamente la Coppa Rimet riuscendo con questo ritmo a rendere musicalmente un clima di affetto e composta tristezza verso quella squadra a cui  mancò solamente il gran finale ma che ci aveva comunque già regalato tantissime soddisfazioni tra le quali senza dubbio svetta meravigliosa la vittoria sulla Germania Ovest.

Fausto Cigliano oggi
Il 1970 fu un anno di passaggio sia per la canzone italiana, in cui convivevano i successi di Morandi, Nicola Di Bari e Guccini, sia per quella internazionale tra rock e disco. Ma fu il simpatico e bravo Fausto Cigliano con "Ossessione 70" a trasformare quella nazionale in un tormentone nostalgico.

“Domenghini e Mazzola, Boninsegna e Rivera/in panchina, in panchina, con Zoff” diceva il ritornello.  Sì perchè quel brano che non a caso abbiamo definito curioso, aveva come testo i nomi degli azzurri di Valcareggi, protagonisti della spedizione messicana. Un fatto mai successo sino ad ora e che infatti colpì immediatamente il pubblico.

A pochi giorni dalla conclusione del Camponato del mondo, il napoletano Cigliano lanciava quindi questa sorta di inno intitolato non a caso Ossessione ’70, perchè quella, un'ossessione, nei confronti del calcio, si è rivelata nella quotidianeità

Tra i successi della stagione, si infilava così anche questa cantilena un po’ scherzosa e un po’ malinconica che inconsapevolmente preannunciava la poderosa accelerazione del pallone nell’immaginario collettivo del Paese e che nel giro di qualche anno avrebbe sostituito le vite dei calciatori a quelle delle teste coronate, degli attori e dei divi tv nei sogni da settimanale nazionalpopolare.

Un'intrusione nella "messa cantata" ogni venerdì da Lelio Luttazzi alla radio, che annunciava i successi della settimana. L’Italia, in quel momento era ai piedi di Lucio Battisti, lui era l'artista di riferimento per quella generazione. All’inizio dell’anno la canzone più acquistata era "Mi ritorni in mente", mentre nei giorni del mondiale dominava la classifica l’amore disperato di "Fiori rosa, fiori di pesco" che non a caso avrebbe trionfato al Festivalbar.

Italia-Germania Ovest, Facchetti e Seeler
C'erano poi gli altri, Morandi per esempio che dopo la vittoria di Canzonissima aveva dominato il primo semestre dell'anno con "Ma chi se ne importa", poi Nicola di Bari vincitore morale di Sanremo con " La prima cosa bella" che vendette di più del vincitore Celentano che con il suo "Chi non lavora non fa l’amore" sembrò schierarsi controcorrente rispetto alle lotte sindacali di quel periodo.

Dall'estero arrivavano "Venus" degli olandesi Shocking Blue, " Let It Be" dei Beatles, "It's five O' Clock" dei greci Aphrodite’s Child di Demis Roussos e Vangelis a rinfrescare le atmosfere sognanti della gioventù in contestazione mentre quella che si accontentava di ritmi e miti meno all'avanguardia, puntava su "Lady Barbara" di Renato dei Profeti, "La lontananza" di Modugno e di nuovo Battisti con "Anna.

"Ossessione 70" così innovativa e spiazzante, s'inserì in quella stagione irripetibile dei 45 giri portando il suo contributo di classe (musicale) e poesia sui generis (testo) finendo però per ballare una sola estate come il protagonsita di quel celebre film di Arne Mattsson, per essere presto dimeticata in qualche cassetto.

Ci penserà Mina che già l'aveva riproposta nell'album "Altro" del 72 con un bel arrangiamento di Natale Massara, a rilanciarla in una versione rimasterizzata nel 2001, facendole rivivere una seconda giovinezza come reperto storico tutto da riascoltare magari con stupore e nostalgia per un calcio sparito e fatto di grandi uomini oltre che grandi calciatori.

Riascoltiamo allora anche noi l'originale "Ossessione 70", nella consapevolezza che saranno in pochi (pochi? forse nessuno...) che in occasione del tributo a "Boninsegna, Burgnich, Riva e Rivera" e agli altri eroi di quella avventura, si ricorderanno di mandarla per la gioia di Zoff che era "in panchina".

lunedì 15 giugno 2020

Alberto Sordi 100 anni di un italiano

di FRANCESCO TRONCARELLI



Il più amato, il più applaudito, il più imitato, il più grande di tutti. Non solo un attore, ma un mito per generazioni su generazioni. Un artista unico nel suo genere e che ha dato tutto se stesso per il pubblico, senza risparmiarsi, per non deluderlo.

Un gigante dello spettacolo del Novecento, capace di reinventare la comicità e il modo di recitare, con le sue battute fulminati entrate nel lessico quotidiano e i suoi modi di fare e ammiccamenti entrati nella storia del costume. Un'icona della Romanità, di cui ha rappresentato l'anima più vera e popolare.

Ha fatto il bagno nudo nella marana, ha sceso le scale con Wanda Osiris, ha corteggiato Soraya, ha cantato a Sanremo, ha intrattenuto il Papa, ha ballato con le Kessler, ha giocato a scopone scientifico con Bette Davis, ha abbracciato Mina, ha spopolato a Kansas City, ha raccontato meglio di un sociologo vizi e virtù degli italiani.

Cento anni fa, il 15 giugno del 1920, nasceva al numero 7 di via San Cosimato nel Rione Trastevere a Roma, Alberto Sordi, una delle maschere più celebri della cinematografia e dell'arte italiana. Comica e tragica, unica e riconoscibile, con la quale è stata raccontata la storia della nostra Nazione.

Sordi amerecano

Sì perchè Alberto Sordi è stato l'Italia e l'Italia è stata Alberto Sordi. Nel corso della sua lunga e apprezzata carriera il figlio di Pietro, maestro di tuba al Teatro dell'Opera e della maestra Maria Righetti, è stato il volto di un Paese che faticosamente tentava di rialzarsi dal dramma della guerra per avviarsi verso la ricostruzione.

Il volto dell'Italia fanfarona negli anni della Dolce vita e di quella malinconica della crisi economica, il volto degli arrivisti e dei maneggioni ma anche delle persone perbene e degli eroi che hanno popolato il Bel paese.

Da Oreste Jacovacci, il soldato scanzafatiche de "La Grande Guerra" di Mario Monicelli, a Otello Celletti, "Il vigile" borioso e combina guai, dal Marchese Del Grillo nobile impertinente in fuga dalle sue responsabilità a "Mericoni Ferdinando detto l'amerecano", il borgataro sognatore degli Stati Uniti che alla mostarda preferisce i maccheroni.

Uno dopo l'altro Albertone ha incarnato tipi e riti dell'Italia più vera, film dopo film, oltre 150 che gli valsero un Leone d'oro a Venezia, 10 David di Donatello, 6 Nastri d'argento e decine e decine fra Grolle e Globi ha raggiunto la dimensione della star internazionale osannata da registi come Martin Scorse, Francis Ford Coppola e Quentin Tarantino.

Sordi regista

Ha iniziato come comparsa a Cinecittà nel colossal "Scipione l'africano", poi tante particine sino alla svolta quando, grazie alla sua voce baritonale, vinse il concorso della Metro Goldwyn Mayer per doppiare Oliver Hardy, del duo comico Stanlio e Ollio, a cui con quegli accenti sbagliati regalò una grande popolarità. 

La sua attività di doppiatore proseguirà fino alla metà degli anni Cinquanta, prestando la sua voce  anche ad attori americani nei film western e in un'occasione, "Domenica d'agosto", addirittura a Marcello Mastroianni. Alberto poi attraversa i fasti del glorioso Varietà accumulando un'esperienza che verrà sublimata in una delle sue pellicole più celebri e amate: "Polvere di Stelle" con Monica Vitti.

Il suo eclettismo creativo in Radio dà vita a personaggi memorabili come quello del "Compagnuccio della parrocchietta", del Conte Claro e Mario Pio ("..pronto con chi parlo con chi parlo io..") che troverà anche nuova vita in "Gran Varietà" di fine anni 60.

La sua popolarità nel Cinema esplode negli anni Cinquanta. Per l'amico Federico Fellini con cui aveva condiviso sogni e "fame" di successo, diventa una star dei fotoromanzi ne "Lo sceicco bianco" e poi l'immaturo Alberto de "I vitelloni". Due capolavori apprezzati dai critici di tutto il mondo.

La grande guerra

In tutto il decennio dà vita al personaggio definito, forse con un po' di leggerezza, dell' "'italiano medio", rappresentato da quel Nando, che mescola romanesco e inglese, prima nel corale "Un giorno in pretura", poi, protagonista, in "Un americano a Roma" entrambi firmati da Steno, il papà dei fratelli Vanzina e diventa passo dopo passo un pezzo della storia di questo Paese.

E' stato così scapolo, seduttore, moralista, marito, vedovo, diavolo, avvocato, giudice, detenuto, avaro, scocciatore, dentone, mostro, nuovo mostro, malato immaginario, medico della mutua, maestro di Vigevano, fenomeno paranormale, temerario sulle macchine volanti, borghese, nobile, arrivista, industriale.

Comico sì, ma anche attore completo e drammatico come nei film che compongono la cosidetta trilogia della Guerra nei 60, secondo molti, con l'interpretazione, vent'anni più tardi in "Un borghese piccolo piccolo", il punto più alto della sua carriera. Ci riferiamo a capolavori come "La grande guerra" con Vittorio Gassmann e la regia di Mario Monicelli, "Tutti a casa" con la regia di Luigi Comencini e "Una vita difficile" di Dino Risi.

Il racconto della storia del Novecento prosegue con altri due film entrati nell'immaginario popolare: "Il medico della mutua" (che, con il sequel che aveva ancora come protagonista il dottor Guido Tersilli provocò le ire della categoria dei medici e ancora oggi ha una carica di denuncia sociale altissima) e "Riusciranno i nostri eroi a ritrovare il loro amico scomparso in Africa" del '68 diretto da Ettore Scola a fianco di un altro grande, Nino Manfredi.

Polvere di stelle

Ci sono poi i 19 film diretti dallo stesso Sordi, tra cui spicca, oltre a "Polvere di stelle" del 1973, "Fumo di Londra" del '66 accompagnato dalla struggente colonna sonora firmata come tutte le altre dall'amico e grande musicista Piero Piccioni e il malinconico "Nestore, l'ultima corsa" che sugella una carriera fatta da grandi interpretazioni e tanto rispetto per il pubblico.

Nell'ultima parte della sua parabola artistica Sordi ha regalato opere di enorme diffusione come "Il marchese del Grillo" del 1981 di Mario Monicelli, "Perché io so io, e voi nun siete un c...", la battuta più celebre e rappresentativa del personaggio.

Ancore "Il tassinaro" (nel suo taxi dove prendeva a bordo anche Giulio Andreotti), "In viaggio con papà" con Carlo Verdone cui seguirà "Troppo forte" e "Tutti dentro", capace di prefigurare con quasi un decennio di anticipo il clima e le vicende di Tangentopoli.

Sordi ha girato centinaia di pellicole offrendo mille volti ma ha sempre nascosto il suo, geloso della sua privacy ed intimità familiare che viveva nella bella villa a un passo dalle Terme di Caracalla, dove risiedeva dal '58 con le sorelle Aurelia e Savina.

Albertone, troppo forte


Non si è mai saputo molto della sua vita privata. L'unica relazione ufficiale è stata quella iniziata nel 1942 e durata nove anni con la collega Andreina Pagnani, 14 anni più di lui (22 Sordi, 36 lei). "Non mi sposo - amava ripetere scherzando - e che mi metto un estraneo dentro casa?. E' certo comunque che abbia avuto numerosi flirt vissuti con discrezione e lontano da paparazzi e stampa specializzata.

E c'è anche un altro aspetto dell'uomo Sordi sconosciuto ai più, quello della sua generosità. Alberto faceva tanta beneficenza in silenzio, senza comparire e sono stati tanti i gesti di solidarietà e sostegno concreto verso i più umili.

Per esempio quello più importante riguarda la donazione di un lotto di terreno a sud di Roma e immerso nel verde della campagna, perché vi sorgesse nel 2002 una struttura d’avanguardia composta da un Centro per la salute e l’assistenza delle persone anziane e da un Centro per aiutarli a mantenere e recuperare le proprie capacità psico-fisiche.

Poi c'è quello di cui non si sapeva nulla e che è stato svelato recentemente. Ovvero il versamento di un assegno circolare per svariati milioni ogni anno in occasione della raccolta fondi organizzata sotto Natale dal Messaggero per opere di bene.

Sposato solo sul set

Generoso sul set e generoso nella vita di tutti i giorni quindi, grande artista e grande uomo, questo è stato Alberto Sordi e le testimonianze che in questi giorni di celebrazioni per il suo Centenario si stanno susseguendo lo confermano semmai ce ne fosse bisogno.

Tutti lo ricordano con affetto e nostalgia. E la mente va alla sua ultima apparizione pubblica che ebbe luogo in video girato nel suo studio, durante una serata organizzata in suo onore all'Ambra Jovinelli di Roma il 17 dicembre 2002, in quel teatro che lo aveva visto da giovane, protagonista irresistibile di tante scenette e gag.

Stanco, in poltrona, dispiaciuto per non essere lì fra il suo pubblico perchè non in buone condizioni fisiche, chiuse il suo intervento con una parola semplice e maliconica, un commovente "Addio", la cui portata si capì solo dopo.

Alberto infatti morì per un tumore ai polmoni il 24 febbraio del 2003. Alle sue esequie, svoltesi nella Basilica di San Giovanni in Laterano, parteciparono oltre 250.000 persone tra cui il presidente della Repubblica Ciampi.


Altrettante erano andate a rendergli omaggio alla camera ardente allestita in Campidoglio, dove, per i suoi 80 anni, era stato "sindaco per un giorno" indossando la fascia tricolore.

Sulla sua tomba nella cappella di famiglia al Verano meta tuttora di pellegrinaggi di fan e ammiratori c'è una battuta di uno dei suoi film che lo hanno reso indimenticabile: "Sor Marchese, è l'ora".

A Sordi abbiamo voluto tutti bene ed ora a distanza di anni da quando se ne è andato gliene vogliamo ancora di più. Buon compleanno Alberto!

domenica 14 giugno 2020

Addio Ricky Valance, disse a Laura che l'amava

di FRANCESCO TRONCARELLI


Ha ballato una sola estate, come il protagonista del celebre film di Arne Mattsson, ma che ballo. Uno di quel lenti da mattonella che dominavano le feste degli adolescenti di tutto il mondo negli anni Sessanta. Un successo di quelli che ti cambiano la vita e che restano nella memoria collettiva per sempre, specialmente nei paesi anglosassoni come dimostrano le "breaking news" che ininterrottamente hanno annunciato la sua scomparsa.

Stiamo parlando di Ricky Valance, il cantante gallese noto per la celeberrima hit del 1960 "Tell Laura I Love Her" che è morto all'età di 84 anni, come confermato dal suo agente e riportato dai media britannici. Tempo fa gli era stata diagnosticata la demenza senile ed era ricoverato in una clinica da prima del blocco dovuto alla pandemia.

Ha concluso la sua vicenda umana e artistica sessant'anni dopo essere diventato un numero uno nel mondo con un brano nato nei Sessanta e dopo essere stato sessanta volte nelle chart UK e USA e in quelle canadese ed australiana con i suoi dischi e album. Una coincidenza incredibile.

Ricky Valance, il cui vero nome era David Spencer, è stato il primo cantante uomo del Galles (il secondo in assoluto dopo Shirley Bassey) ad avere un singolo al primo posto in classifica nel Regno Unito, proprio con "Tell Laura I Love Her" un pezzo che ha fatto epoca e che suscitò molto scalpore quando venne pubblicato.


Nato a Ynysddu, località collocata nella contea di Caerphilly, iniziò a cantare ancora bambino nel coro della chiesa. Si era arruolato volontario nella Royal Air Force, l'aviazione britannica, all'età di 17 anni, e aveva prestato servizio in Nord Africa per tre anni.

Poi finito il servizio militare, cominciò ad appassionarsi alla musica, seguendo le orme materne in quanto la madre era stata una soubrette e rinomata ballerina. Iniziò così a esibirsi in club nel nord dell'Inghilterra, per poi ottenere un contratto discografico con la prestigiosa etichetta Columbia e incidere "Tell Laura I Love Her".

La canzone, in realtà, era americana, scritta da Jeff Barry e Ben Raleigh, ed era stata già incisa, sempre nel 1960, da Ray Peterson, ma non aveva avuto una risonanza internazionale. La ebbe invece nella versione di Valance e per una situazione contingente, la censura preventiva da parte della BBC.

Il brano racconta la tragica storia di un adolescente di nome Tommy disperatamente innamorato di una ragazza di nome Laura, al punto di partecipare a una gara automobilistica per comprarle un anello.

Il giovane, però, muore in un incidente durante una corsa e le sue ultime parole sono "Dite a Laura che la amo". L'emittente di stato inglese non ritenne opportuno per evitare una sorta di emulazione fra i giovani, di trasmettere il disco di Valance, che trovò invece "rifugio" nella seguitissima Radio Luxembourg, antesignana di tutte le radio libere e "pirata" che trasmetteva anche da una nave ancorata in acque extraterritoriali nel sud della Gran Bretagna.

E fu il successo, del brano, che vendette complessivamente 7 milioni di copie nelle varie versioni e soprattutto del tenebroso Ricky che iniziò una lunga carriera costellata da altri successi come "Hallo Mary Lou", "Welcome home" senza però raggiungere più livelli e platee internazionali.

Molti artisti hanno cantato "Tell Laura I Love Her" negli anni seguenti, tra cui Marilyn Michaels, Skeeter Davis, Laura Lee. Esiste anche la versione italiana "Dite a Laura che l'amo", incisa da Michele, uno degli epigoni italiani di Elvis insieme a Little Tony e Bobby Solo, che nel 1967 ne fece una celebre cover che conquistò la nostra Hit Parade.

Valance, artista molto amato in patria a cui la BBC che a suo tempo lo bloccò ha dedicato immediatamente un tributo in suo onore cambiando il palinsesto, era da sempre vicino alla forze armate inglesi, alla mitica RAF in particolare a cui aveva donato un milione di sterline per i figli dei caduti.

lunedì 8 giugno 2020

Nancy Sinatra, 80 anni da star

di FRANCESCO TRONCARELLI 


Generazione di fenomeni. Hanno lanciato mode, balli, capi d'abbigiamento e soprattutto canzoni che hanno accompagnato generazioni in tutto il mondo. Sono gli ottantenni della musica, un gruppo di artisti di razza che, uno dopo l'altro, compiono gli anni suscitando entusiasmo e affetto fra chi li ha sempre seguiti e quanti li hanno apprezzati nel tempo.

Ha iniziato Neil Sedaka, il re del pop americano, ha proseguito Peppino di Capri, ambasciatore del twist in Italia e della musica italiana nel mondo, dopo di lui Peppino Gagliardi conosciuto ovunque grazie alla colonna sonora di "Operazione UNCLE", ieri è toccato al baronetto della Regina Elisabetta Tom Jones spegnere le candeline.

Oggi è la volta di una star dell'epopea beat e simbolo degli anni Sessanta, Nancy Sinatra, che con le rivali Cher (in coppia col marito Sonny Bono) e Marianne Faithfull, si contende il titolo di regina di quel fenomeno musicale e di costume che anticipò la Contestazione giovanile del 68.

A lei s'ispirarono le nostre Patty Pravo e Caterina Caselli agli inizi carriera quando si affacciarono alla ribalta del Piper, alla sua grinta, al suo carisma, al suo modo di reggere la scena. Al suo beat. Come tutte le ragazze del Bel paese che sognavano di portare la minigonna e gli stivaletti come lei.

Nancy Sinatra, primogenita di The Voice, è stata il simbolo di una generazione, in America e nel mondo, che muoveva i primi passi in autonomia nella società del benessere e del boom economico, incarnando il lato spensierato ed insieme aggressivo del beat con le sue canzoni di immediato impatto.


Pezzi come l'indimenticabile successo internazionale "These Boots Are Made For Walkin', di cui c'è un video, uno dei primi della storia, che ha fatto veramente epoca e scalpore, dovuti al prezioso collaboratore e "tutor" Lee Hazlewood.

Ma non solo, nella sua figura che colpiva tutti, in quella immagine sexy e sportiva, tipicamente californiana ed echeggiante la "endless summer" del surf e dei Beach Boys, c'era una voglia di ribellione ai canoni tradizionali fatti di "occhi bassi e sissignore" a cui dovevano adeguarsi i giovani.

Nelle copertine dei suoi 45 giri appariva frequentemente in bikini o in minigonna, con gli immancabili stivaletti, trasmettendo un messaggio chiaro: questo mondo è dei giovani. Tutti la adoravano e tutte volevano essere come lei. Alla moda e con la possibilità di dire anche "no" a quello che non ritenevano giusto.

Nata a Jersey City, New Jersey, l’8 giugno 1940 sotto il segno dei Gemelli, Nancy è cresciuta in mezzo alle tante star che frequentano la sua casa, e si avvicina molto presto al mondo dello spettacolo e della musica, accompagnando anche il padre in alcune tournée mondiali.

Sul finire degli anni Cinquanta compare nello show televisivo Frank Sinatra Timex Show, duettando sia con il padre che con artisti del calibro di Dean Martin ed Elvis Presley. Lanciatissima nella sua carriera, pubblica il suo primo album, Boots, nel 1966.

Somethin' stupid

L’anno dopo interpreta il brano "You Only Live Twice" (Agente 007 Si vive solo due volte) di John Barry per il quinto film di James Bond. Al 1967 risale anche un altro dei suoi brani più famosi, Somethin’ Stupid, in duetto con il padre Frank. In anni più recenti la canzone è stata riproposta anche da Robbie Williams insieme all’attrice Nicole Kidman.

Gli anni Sessanta sono quelle del suo maggior successo musicale, ma anche delle sue indimenticabili interpretazioni sul grande schermo, come nel film "Patto a tre" con il padre, nella commedia horror "Il castello delle donne maledette" e in "A tutto gas", film con Elvis come coprotagonista.

Dopo l’exploit di questo decennio, il suo successo va scemando (almeno a livello internazionale) negli anni Settanta e vive di pochi ritorni di fiamma negli anni Ottanta e nei Novanta, fino a quando nel 2005 Quentin Tarantino non sceglie la sua Bang Bang (My Baby Shot Me Down) per la colonna sonora di Kill Bill: Volume 1, ridandole un’incredibile popolarità.

Fa piacere però che il regista Quentin Tarantino si sia ricordato di lei per la colonna sonora del suo film Kill Bill, dove è inserita la sua versione, in chiave ancora più "low" del classico dei classici del beat, "Bang Bang" della sua rivale dell'epoca Cher. E la Sinatra aveva anche interpretato e inciso, nei suoi anni d'oro, il grande successo della Faithfull "As Tears Go By".

Un altro incrocio interessate della cantante è quello avvenuto con la psichedelia e il progressive-rock. Per molti (in Italia soprattutto) l'incontro e l'innamoramento con questo nuovo genere, all'alba degli anni '70, è avvenuto con il formidabile brano dei Vanilla Fudge, parliamo ovviamente di "Some Velvet Morning", presentato a una manifestazione canora che si teneva allora a Venezia.

Nancy Star sulla Walk of Fame

Ma pochi sapevano al tempo (e forse anche oggi) che si trattava di una cover, molto estesa e musicalmente elaborata, proprio di un singolo di Nancy Sinatra, cantato con il fido Hazlewood che ne era anche l'autore, e neanche poi tanto lontano musicalmente. E' molto probabile quindi che anche i Vanilla Fudge apprezzavano la travolgente Nancy.

Come le altre colleghe rivali. anche la Sinatra ha avuto una notevole capacità di recupero. Cher è tornata negli anni '80 come diva di Hollywood (arrivando fino a conquistare un Oscar) e testimonial dei miracoli della chirurgia estetica, Marianne Faithfull come cantautrice rock tra le più grintose e apprezzate con l'album Broken English del 1979 e con la sua produzione successiva, sino all'ottimo Before The Poison del 2004

Nancy, a parte la sua celebre apparizione senza veli su Playboy nel 1995 a 54 anni, non ha perso il passo, e nel 2004 è tornata sulla scena con un disco, che porta il suo nome, dove canta canzoni di Bono (non Sonny, quello degli U2), Joe Cocker, Morrissey, Calexico ed altri musicisti sicuramente post-beat, con risultati apprezzabili dimostrando di avere sempre la stoffa della protagonista.

Sposata due volte, madre di Angela Jennifer e Amanda Kate e nonna di quattro nipoti, legata all'Italia grazie al tifo per il Genoa (il padre fu sepolto con la sciarpa rossoblu incredibile ma vero), dopo aver interpretato se stessa in un episodio de i Soprano, Nancy Sinatra si è da sempre distinta per la sua attività in favore dei veterani del Vietnam oltre ad amministrare la fondazione intitolata al grande Frank e a condurre un programma sulla Sirius Satellite Radio. Oggi compie 80 anni e non porta più gli stivaletti. Il sorriso e la grinta però sono rimasti immutati. Auguri.

domenica 7 giugno 2020

Tom Jones Sex bomb a 80 anni

di FRANCESCO TRONCARELLI

 

Ci sono artisti che riescono ad arrivare in alto, molto in alto, in cima alle classifiche mondiali, partendo da condizioni di vita al limite del tollerabile. Tom Jones è uno di questi. La sua è una vicenda esemplare, una storia che Charles Dickens il cantore delle tristi vicende di Oliver Twist avrebbe saputo narrare alla grande.

Una vita fatta di sofferenza, mali apparentemente incurabili, amore vero, tradimenti (si era sposato a soli 16 anni, con Melinda Rose Trenchard. Tra alti e bassi il loro rapporto coniugale fra loro è andato avanti fino alla morte di Melinda, nel 2016), rinascite.

Dall'inferno al paradiso con ulteriore andata e ritorno. Il tutto però sempre concluso da un finale lieto, merito della sua perseveranza e del suo talento. E di quella voce incredibile e portentosa che squarciava le platee e scuoteva il pubblico.

Da minatore a baronetto di Sua Maestà, 100 milioni di dischi venduti, un'icona del pop e un sex symbol riconoscuto negli anni di maggior splendore, il primo artista a cui le fan scatenate tiravano la biancheria intima durante i suoi concerti. Un mito della musica mondiale che da seguace di Elvis è diventato suo amico fidato.

Thomas Jones Woodward è nato il 7 giugno 1940 a Pontypridd, in Galles, sotto il segno dei Gemelli, figlio di un minatore e una casalinga, è cresciuto in condizioni economiche difficili. Questo non gli impedisce di mostrare sin da piccolo doti canore incredibili. Inizia così a cantare in chiesa, durante i grandi eventi della famiglia e nel coro della scuola.
ieri e oggi

A 12 anni si ammala di tubercolosi e per due anni è costretto a rimanere a letto. Si avvicina ancora di più in questo periodo di grande sofferenza al mondo della musica ascoltando di tutto. Ripresosi dalla malattia, abbandona la scuola nel 63 e inizia a svolgere lavori umili come l’operaio, il minatore, il muratore e il venditore porta a porta.

La sera però coltiva il suo sogno di diventare un cantante e si esibisce in diversi locali insieme a un gruppo, The Senators. Per via dei suoi atteggiamenti sul palco piuttosto trasgressivi, molto ispirati a quelli di Elvis, fa scalpore ma fatica a trovare un’etichetta disposta a scommettere su di lui. Nel 1964 riesce finalmente a farsi notare da Gordon Mills, un ex cantante divenuto manager.

E' lui che lo porta a Londra, lo fa ingaggiare da una casa discografica e gli regala il primo 45 giri scritto da lui stesso che lo farà cosocere subito, da sconosciuto, al grande pubblico. Il brano si intitola "It’s Not Unusual". Un pezzo che gli cambierà la vita.

Con questo disco infatti conquista le hit parade di tutto il mondo, arrivando in top ten anche negli Stati Uniti e diventa il cantante rivelazione dell'anno, il 1965. E' l'inizio, fortunato e inaspettato di una lunga e fortunata carriera che lo porterà a calcare i palchi più prestigosi del pianeta e a partecipare agli show delle televisioni più importanti.


Il ricciolone Tom, un metro e 77 di muscoli e spavalderia, diventa una superstar della musica e un sex symbol per la sua avvenenza. I successi si susseguono, basti ricordare canzoni come "Delilah" (La nostra favola di Jimmy Fontana), "What’s new pussycat” e “Never fall in love again” (entrambe di Burt Bacharach), “Green, green grass of home”, “Help yourself”, “Without love” e persino la colonna sonora di uno James Bond, "Thunderball-Operazione tuono" a sigillare una fama inernazionale.

Alla fine del 1970, grazie anche a nuovi successi come “I (who have nothing)” e “She’s a lady”, le vendite superano gia’ i 30 milioni di dischi e Jones, oltre che un’attrazione nei concerti (dove si registrano frequentemente scene di isteria da parte del pubblico femminile

Diventa anche un personaggio televisivo popolare grazie a “This is Tom Jones!”, show di grande successo che conduce per la rete americana ABC e in cui sono ospitati artisti del calibro di Aretha Franklin e Ray Charles.

Col finire dei Settanta e l'avvento di nuovi idoli e generi musicali, inizia il suo lento ma inesorabile declino. Da over the Top alle performance negli hotel e negli spazi riservati a battesimi e ricevimenti. Dalle stelle alle stalle. Un periodo buio e non più sotto la luce dei riflettori che Jones sintetizzò in un ricordo significativo nel corso di una conferenza stampa a cui partecipò il vostro cronista.

Con Elvis e la moglie Priscilla
"Ero davanti lo specchio dello spogliatoio della sala matrimoni di Framingham, Massachusetts, una notte del 1983. 10 anni di fila senza successo per stare ogni notte in club di seconda categoria. Giacca bolero di paillettes, camicia bianca aperta, catena d'argento intorno al collo. Pantaloni neri con la vita alta, tacchi cubani. In quel momento mi potevo porre solo due domande. Come sono arrivato qui? E una volta qui, come faccio a uscire da questo?".

Insomma sembrava finita, non certo economicamente ma dal punto di vista professionale, ma Tom si rimboccò le maniche di quel bolero alla Don Diego di Zorro e con l'aiuto del figlio Mark, attento alle nuove tendenze ed esperto di comunicazione, riesce a rispolverare la sua immagine e risalire la china, come era giusto che fosse.

Gli anni Novanta così, rilanciano Tom Jones che rivive un vero e proprio revival della sua fama, visto anche la sua capacità di adattarsi alle nuove sonorità del mondo della musica. Nel 1999 lancia un album, "Reload", che vanta al suo interno la presenza di ospiti di primissimo piano.

Artisti come Robbie Williams, Zucchero, Stereophonics, Cardigans e Portishead che duettano con lui in e danno lustro al disco, come del resto il singolo estratto dall'album che gli frutta il trionfo planetario, “Sex bomb” che diventa il suo best seller di sempre, con oltre cinque milioni di copie vendute nel mondo.

la Tigre del Galles
Tornato un’altra volta sulla cresta dell’onda, Jones attira nuovamente le attenzioni del jet set internazionale: Bill e Hilary Clinton lo invitano ad esibirsi nel 2000 davanti al Lincoln Memorial di Washington per le celebrazioni del nuovo millennio in corso alla Casa Bianca, l’anno successivo e’ sul palco di Modena per l’edizione annuale del Pavarotti & Friends e nell’estate 2002 partecipa alle celebrazioni per il Giubileo della Regina.

A riportare l’artista all’attenzione del pubblico e della critica e’ Praise & Blame (2010), al quale segue "Spirit in the room". Dal 2012 diventa coach del talent show The Voice UK, mentre nel 2015 pubblica "Long Lost Suitcase". Su Instagram la Tigre del Galles ha un account ufficiale da oltre 250mila follower. Oggi compie 80 anni.