di FRANCESCO TRONCARELLI
Quaranticinque anni fa la
Lazio guidata da Chinaglia vinceva il suo primo scudetto. La cronaca di
quella giornata col tifo alle stelle per una squadra entrata nella
leggenda.
Faceva caldo a Roma quel 12 maggio del 1974. Non solo per la temperatura che già di prima mattina toccava i 22 gradi, ma anche per altri motivi. Meno tecnici e più personali. Quelli che coinvolgono la passione, il sentimento, l’attesa.
Per la prima volta nella sua storia, la Lazio quel giorno aveva la possibilità di conquistare lo scudetto, un evento nel vero senso della parola, che avrebbe ribaltato le gerarchie del calcio portando all’attenzione generale una società gestita in modo familiare da un presidente papà, Umberto Lenzini e guidata da Tommaso Maestrelli, un allenatore psicologo e ricco di umanità capace di tirare fuori il meglio da ciascuno dei suoi giocatori, campioni di grande livello tecnico divisi nella vita ma uniti sul campo come un sol uomo.
Ecco perché in città faceva caldo quel 12 maggio di quarantacinque anni fa. Se avesse battuto il Foggia nella partita in programma all’Olimpico, la Lazio si sarebbe “laureata campione d’Italia” (come si diceva a quei tempi) con una giornata di anticipo sulla fine del campionato.
Non a caso il Corriere dello Sport titolava su cinque colonne: “Per la Lazio il giorno più lungo, per la città la vigilia più sofferta” . Vero, tutto vero. La tensione era alle stelle, come i preparativi. Le radio private allora non c’erano, di telefonini neanche a parlarne, il cellulare infatti era solo il furgone della polizia usato per le retate o per portare i celerini nei luoghi delle manifestazioni, eppure anche senza i diktat delle radio sportive o gli sms pronti a diffondersi in un baleno, il tam tam lanciato dai capi tifosi si era ugualmente propagato per Roma.
Lo slogan era “una persona, una bandiera”, come dire, ogni tifoso che andrà allo stadio porti con sé un vessillo, magari cucito alla buona da una madre premurosa e fissato a un manico di scopa o ad una canna da pesca, in modo che lo stadio sia “dipinto” coi nostri colori in quella che potrebbe essere la nostra giornata. E così fu. Mai tanti stendardi e bandiere sono stati visti all’Olimpico in una sola volta, un colpo d’occhio impressionante e da brividi come dimostrano le immagini girate quel giorno dalla Rai, unica depositaria del verbo.
Sono immagini che ci raccontano di uno stadio stracolmo e pieno di passione. La gente laziale non voleva perdersi quell’appuntamento decisivo e cosi si registrò il tutto esaurito con il record di spettatori paganti rimasto imbattuto negli anni.
60.494 biglietti venduti, più 18.315 abbonati, senza contare le migliaia di persone prive di tagliando che scavalcarono la recinzione in Curva e in Tevere, per un totale di oltre 80mila presenti, sono numeri che parlano da soli e danno il senso di quello che accadde in occasione di Lazio-Foggia. I cancelli non a caso furono aperti eccezionalmente alle 9 per permettere alla gente di entrare per tempo e senza problemi, nonostante l’incontro iniziasse alle 16.
Mezz’ora prima dell’inizio delle ostilità sul prato dell’Olimpico, Lenzini fece il giro di campo per salutare i tifosi e per lui fu un trionfo a scena aperta, un’ovazione speciale e meritata, una sorta di aperitivo di quello che sarebbe successo al momento dell’ingresso in campo delle due squadre.
Una scena bellissima, da brividi. Mentre capitan Wilson guidava i suoi compagni d’avventura verso il centro del campo, migliaia di coriandoli bianco e azzurri vennero lanciati in aria dalle gradinate della Sud, dove allora era concentrato il tifo dei fedelissimi, le bandiere iniziarono a sventolare vorticosamente e quel mare biancoceleste iniziò a spandersi e straripare in tutto i settori dello stadio.
La gente era tutta in piedi a tifare, a sostenere Frustalupi, Garlaschelli, D’amico e Re Cecconi, ad applaudire Pulici, Petrelli e Wilson, ad incitare Nanni, Oddi e Martini, ad impazzire per Chinaglia, l’invincibile guerriero, Giorgione, il calciatore che più di tutti aveva ridato dignità al tifo laziale risvegliandone il senso di appartenenza a suon di gol e di una lazialità spinta ai massimi livelli.
E il destino volle che fu proprio lui a siglare il gol-scudetto, la rete che avrebbe segnato un’epoca e regalato alla banda Maestrelli l’immortalità sportiva. Avvenne al 58° , quando lo stadio piombò in un silenzio assoluto per seguire Long John battere il calcio di rigore. Un attimo di concentrazione che durò un’eternità. Poi appena il pallone scagliato da Chinaglia gonfiò la rete difesa dal foggiano Trentin tuffatosi sul lato opposto del tiro, ci fu l’apoteosi.
Chi piangeva, chi rideva, chi saltava per la gioia. Tutti si abbracciavano ed erano felici. Furono momenti indescrivibili che si sarebbero ripetuti senza freni e all’ennesima potenza al termine della partita, quando ci fu l’invasione di campo festosa e pacifica dopo il triplice fischio finale dell’arbitro Panzino.
Erano le 17 e 45 del 12 maggio 1974 la Lazio era campione d’Italia, come annunciava Enrico Ameri in collegamento dall’Olimpico dai microfoni di “Tutto il calcio minuto per minuto”. La festa aveva inizio e sarebbe durata tutta la notte, tra caroselli con le macchine, cortei in centro, cene e grandi bevute con gli immancabili bagni nelle fontane per tirare fino all’alba, in tempo per correre in edicola e prendere le prime copie del quotidiano sportivo della città che raccontava così quell’avvenimento storico: “LAZIO NEL SOGNO – Ha 74 anni di vita come il nostro secolo, soltanto 2 anni fa era in B: adesso per suo merito è anche la capitale del calcio italiano”.
Il giorno più lungo per la cara vecchia Lazio si era concluso. Lo scudetto era biancoceleste. La Lazio di Maestrelli e Chinaglia entrava nella storia dalla porta principale e diventava leggenda come esempio di attaccamento alla maglia e di squadra anticipatrice del calcio moderno. Sono passati quaranta cinque anni esatti da quella emozione, ma il cuore biancoceleste batte ancora come quel giorno e la festa ritorna all’’Olimpico con quei campioni di ieri davanti a settantamila innamorati di Lazio che celebreranno quello Scudetto indimenticabile. Uno Scudetto dal sapore antico, quello di un calcio a misura d’uomo e non di sponsor, quello di un calcio vissuto e ricordato di “padre in figlio”.
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