martedì 31 marzo 2020

Vincent, la canzone che è un quadro

 di FRANCESCO TRONCARELLI


Nell'anniversario della nascita di Van Gogh, arriva la notizia del furto di una sua opera. E' stato rubato infatti un quadro dell'artista dal museo olandese Singerlaren nella notte tra domenica e lunedì. Lo ha reso noto il direttore del museo, peraltro chiuso a causa della pandemia Covid-19. I ladri hanno sfondato una porta a vetri et voilà, il 'Giardino della canonica a Nuenen in primavera', è volato via, probabile il furto su commissione.

La notizia ovviamente ha fatto il giro del mondo per l'importanza del suo autore e per le circostanze (furto nel giorno delle celebrazioni), tutti i Tg e Radio varie l'hanno rilanciata, ma nessuno dei reporter che se ne è occupato, ha montato il servizio con quella che da tempo e la "colonna sonora" dedicata a lui, il brano "Vincent".

Mancanza di cultura musicale, dimenticanza, chissà, ma non conta rispondere, tanto i servizi sono andati, resta l'amarezza dell'occasione perduta per riascoltare il capolavoro firmato negli anni 70 da Don McLean che oltre ad essere stato un successo internazionale, è stato poi utilizzato, per omaggiare l'amato pittore e dare la giusta atomosfera alle sue opere.
      
C'è stato un periodo per esempio che il prestigioso Museo Van Gogh di Amsterdam diffondeva nelle sale dove erano esposti i quadri questa brano del cantautore americano, un vero e proprio gioiello acustico che è un tributo sentito al pittore e in particolar modo al suo celebre dipinto “Notte stellata“, realizzato nel 1889 e conservato MOMA di New York.


La canzone difatti inizia proprio con le parole “Starry, starry night“ (Stellata notte di stelle...). Nel 1970 McLean stava attraversando un periodo piuttosto travagliato a causa del suo matrimonio che ormai non funzionava più e stava andando a rotoli. Cercava di distrarsi col lavoro, ma non era facile. Insegnava musica in una una scuola, suonava la chitarra e cantava in aula.

Un giorno mentre era nella biblioteca sfoglia un libro illustrato su Van Gogh e il suo sguardo resta catturato dal dipinto “Notte stellata” e improvvisamente  capisce che doveva scrivere una canzone per dire che Van Gogh non era pazzo: "Aveva un disturbo, questo sì -ha raccontato poi McLean-, cosa che lo rendeva diverso agli occhi degli altri, ma era qualcosa di ben diverso dal mio concetto di pazzia. Così mi sono seduto con una stampa di “Notte stellata” e ho scritto i testi su un sacchetto di carta".

E nasce la poesia. Le parole e le immagini che illuminano questo brano, rappresentano la vita, il lavoro e la morte di Vincent Van Gogh. I versi “Paint your palette blue and gray” (“Dipingi la tua tavolozza blu e grigio”) riflettono i colori predominanti del dipinto, e sono probabilmente un riferimento all’abitudine dell'artista di succhiare o mordere i suoi pennelli mentre lavorava,
“The ragged men in ragged clothes” (“Gli uomini laceri in abiti logori”) e ”how you tried to set them free” (“come hai cercato di liberarli”) si riferiscono alle attività umanitarie di Van Gogh e all’amore che nutriva per gli emarginati dalla società, “They would not listen / They did not know how” (“Non volevano ascoltare / Non sapevano come”) si riferisce alla famiglia di Van Gogh e ad alcuni conoscenti che erano critici nei confronti della sua gentilezza verso i “the wretched” (“gli infelici”).

Il quadro a cui si è ispirato McLean

“How you suffered for your sanity” (“Come hai sofferto per la tua sanità”) si riferisce al disturbo schizofrenico di cui Van Gogh soffriva. L'artista dipinse “Notte stellata” dopo essersi fatto internare nel manicomio Saint Paul de Mausole, appena fuori Saint Rémy, in Provenza. Scrisse al riguardo che quella notte era “più ricca di colori del giorno“, ma non poteva andare fuori a vedere le stelle, così dipinse il cielo notturno a memoria.

Ha spiegato McLean: "Stavo rigirandomi il libro tra le mani pensando a come poter raccontare la sua storia quando ho capito che tutto era già nel dipinto. Tu hai arguzia, drammaticità, umorismo, pathos e rabbia e tutte queste cose creano gli strumenti sottili che un artista usa".

La canzone è inclusa nell’album “American Pie” del 1971 che raggiunse il numero 1 della UK chart, la classifica inglese e il numero 12 in quella degli Stati Uniti, dove rimase per ben 12 settimane nella Top 100. La sua fama in Italia è dovuta allo sceneggiato televisivo, come una volta si chiamavano le fiction, "Lungo il fiume e sull’acqua" del 1973, giallo con con attori del calibro di Sergio Fantoni, Laura Belli, Giampiero Albertini, Renato De Carmine, Nicoletta Machiavelli, Franco Graziosi, di cui era la colonna sonora.

la cover firmata De Gregori-Little Tony

C'è stata una versione in italiano frutto della collaborazione fra due artisti molto diversi fra loro uniti per l'occasione in nome della musica. Il testo si deve Francesco De Gregori e ha per titolo "Come un anno fa", l'incisione, molto delicata e intimista, all'Elvis italiano Little Tony. Un’altra versione, che pur avendo un testo che si avvicina all'originale ne ha completamente stravolto l'arrangiamento, l'ha realizzata Roberto Vecchioni. Tra le varie cover di questo brano, da ricordare quelle di Josh Grobhan e di Ronan Keating.

Il cantante irlandese Brian Kennedy ha cantato questa canzone al funerale del mitico calciatore George Best, perchè era la sua canzone preferita. Recentemente il brano è statoa inserito sui titoli di coda di “Loving Vincent“ (lett. "Con affetto, Vincent") un film d'animazione diretto da Dorota Kobiela e Hugh Welchman dal successo mondiale e campione d'incassi in Italia nel 2017.

Nel Museo Van Gogh ad Amsterdam poi, c’è una "Capsula del tempo" che contiene alcuni dei pennelli dell’artista e il suo cappello di paglia insieme agli spartiti di questa brano. Quello che Tg e Radio hanno bucato. Eccolo.

lunedì 30 marzo 2020

Malizia, e fu subito Laura Antonelli

di FRANCESCO TRONCARELLI


Era bellissima Laura Antonelli, una bellezza unica, che non lasciava dubbi all’immaginazione. Quegli occhi tondi e intriganti che ti affondavano solo a guardarla su un fisico che una volta si sarebbe definito da”maggiorata”, come la Lollo e la Loren. Un’attrice esplosiva insomma, secondo i dettami del gossip mediatico che privilegiano da sempre l’esteriorità alla sostanza che peraltro in lei c’era.

Era bella e corteggiata da tutti, sogno erotico degli italiani che avevano imparato a conoscerla quando esplose col film “Malizia”, un titolo che era tutto un programma e dove l’ex profuga istriana che era stata insegnante di ginnastica era Angela, pudica cameriera che faceva ben presto perdere la testa al padrone di casa vedovo Turi Ferro e al figlio minorenne Alessandro Momo (e al pubblico), con le sue vestagliette, le calze nere con la righe e gli abiti leggeri e che le scivolavano addosso sapientemente ritratti dal futuro premio Oscar Vittorio Storaro.

La Divina creatura

L'occasione per parlare di questa attrice è data proprio da questo celebre film di Samperi che usciva  in questi giorni nel 1973 e che avrebbe segnato un'epoca nel costume e nell'immaginario collettivo. Un "Accadde oggi" insomma che riporta all'attenzione un'artista tanto bella quanto sfortunata e il film che l'ha lanciata, con quelle famose scene in cui lei si spoglia e cammina svestita nell’appartamento, oppure in reggicalze su una scala, che sono diventate cult e fonte d’ispirazione per attrici e registi degli anni a venire.

Il film ottenne un successo clamoroso, incassando circa 5 miliardi di vecchie lire, una cifra enorme che la dice lunga sull'accoglienza da parte del pubblico di questa pellicola che valse alla Antonelli dei riconoscimenti prestigiosi, ma gli unici. Nonostante abbia girato decine di pellicole l'indimenticabile attrice nella sua carriera ha portata a casa infatti pochi premi. Il suo più grande successo è stato proprio “Malizia”, che le fece vincere il Nastro d’Argento, il Globo d’Oro e la Grolla d’Oro come Migliore attrice protagonista.

Laura e Belmondo, il suo grande amore

Una serie di premi che fanno riflettere e che a posteriori ci danno la conferma delle sue qualità artitiche. Sì perchè Laura Antonelli che se ne andata sola e dimenticata da tutti secondo un triste clichè che accompagna gli attori quando sono avviati sul viale del tramonto per indifferenza e menefreghismo dei più, oltre che una bella donna era soprattutto una brava attrice.

Una “Divina creatura” che era riuscita nel corso della carriera a dimostrare le sue qualità di interprete brillante, vivace e dai tratti eleganti che maestri del calibro di Visconti, Bolognini e Patroni Griffi erano riusciti ad evidenziare e valorizzare. Bella con l’anima dunque la dolce Laura, anche se troppo imprigionata in quel fisico che all’apice del successo aveva mandato al manicomio Jean Paul Belmondo che fece coppia con lei per nove anni tra alti e bassi, liti e riappacificazioni, dolci baci e languide carezze. E qualche ceffone di troppo.

Dai caroselli per la bibita gassata più famosa del mondo al Nastro d’argento conferitole da critici cinematografici, dal “Merlo maschio” con Buzzanca all’”Avaro” con Alberto Sordi, dalla seducente “Venexiana” di Bolognini alla irresistibile e comica Noce Bovi in “Rimini Rimini” con Maurizio Micheli che la faceva impazzire al ritmo di “Champagne”.

Laura con Alessandro Momo

Poi le storie di droga che assestano il primo colpo alla sua vicenda umana di donna spremuta dagli eventi e usata dagli uomini per la sua fisicità e la storie ancor più drammatiche di quegli interventi di chirurgia plastica praticati nell’illusoria speranza di fermare il tempo, che aggravano una personalità fragile bisognosa di affetti che nessuno voleva più darle perché passata di moda. Come fosse un oggetto da mettere via.

Tra i pochi a starle vicino invocando il ricorso della legge Bacchelli per darle un aiuto concreto, Lino Banfi. E non è un caso che sia stato il comico pugliese a fare questo passo rimasto senza seguito anche per volontà della Antonelli, non solo perché Banfi era suo amico da sempre, ma anche perché provenendo dall’avanspettacolo, conosceva molto bene quel cono d’ombra in cui piombano molte stelle del palcoscenico, dopo i fasti della notorietà.

Messa da parte dal mondo dello spettacolo da tempo e abbandonata dai più, Laura se ne andava per un infarto il 22 giugno di 5 anni fa in solitudine, come aveva vissuto l'ultimo periodo della sua vita, circondata da fantasmi e miserie umane che si erano impossessate della sua quotidianeità. La "malizia" era solo un ricordo, la solitudine una triste realtà.


domenica 29 marzo 2020

Garlaschelli fa 70

di FRANCESCO TRONCARELLI 
 


E' stato uno dei protagonisti della banda Maestrelli, uno di quelli che hanno portato lo scudetto alla Lazio, uno di quelli che ha firmato gol importanti e che con l'Aquila sul petto ha giocato dieci stagioni. Ma non solo, Renzo Garlaschelli che oggi compie 70 anni nel buen retiro di Vidigulfo, la cittadina del pavese dove è nato, è stato anche un personaggio particolare della prima squadra della Capitale. Riservato e scanzonato, beniamino delle folle e oggetto di contestazioni, serio professionista e tiratardi impenitente.

Insomma tutto e il contrario di tutto, ma sempre e sicuramente un gran bel giocatore che ha dato sempre il meglio in ognuna delle Lazio in cui ha giocato: quella invincibile, quella forte, quella così così, quella che si doveva salvare. 276 presenze e 64 reti complessive (coppe comprese), in biancoceleste dal 1972/73 al 1981/82, sono il biglietto da visita dell’ala destra coi basettoni e lo sguardo ispirato, tra i migliori sulla piazza nel ruolo affollato da calciatori del calibro di un Franco Causio ad esempio o dello stesso “Peppiniello” Massa ceduto non senza polemiche dalla Lazio all’Inter e rimpiazzato proprio da lui.

Affidabile, ecco se c'è un aggettivo con cui si può definire il "Garla" era proprio questo, con lui stavi tranquillo, svolgeva il suo compito di spalla di Chinaglia alla grande. Maestrelli, grandissimo conoscitore di calcio aveva puntato su di lui, semisocnosciuto attaccante del Como per la sua formazione ideale per dare l'assalto al campionato.

Mise su infatti un tridente particolare con Chinaglia centrale, Garlaschelli a destra e Manservisi a sinistra come esterni offensivi con il compito di allargare le difese avversarie. E il Garla eseguiva. Con soddisfazione di Long John, implacabile cecchino dei portieri avversari.


Affidabile dunque e neutrale. In quella banda di talenti folli che avrebbe regalato il Tricolore alla gente laziale c'erano due clan, quello con Chinaglia e Wilson (Pulici, Oddi e Facco) e quello con Martini e Re Cecconi (Frustalupi e Nanni): lui stava nel mezzo, pur giocando per Giorgio e tifando per Cecco.

Quando nel team dei futuri campioni entrò D'Amico al posto di "Uccellino" le cose non cambiarono. La spalla di Giorgione Garlaschelli era lì, pronto a scattare e a fintare alla Garrrincha, un suo movimento classico che mandava al manicomio i terzini avversari fruttando cross al centro o galoppate in solitaria verso il gol.

E galoppava bene pure di notte il Garla. Scapolo impenitente aveva un'esistenza abbastanza bohémien, fatta di notti insonni e via Veneto, donne (la leggenda dice molte) e wisky. Alternava il “Jackie O” a una grande professionalità, il ballo all'allenamento, evidentemente grazie all’aiuto di un fisico eccezionale.

Era arrivato a Roma con una vecchia Fiat 124 che contrastava con la Bentley di Chinaglia e la Jaguar di Wilson, ma si era subito adeguato all'ambiente, alle atmosfere che rendevano la Città eterna la più dolce del mondo. Il Maestro sapeva delle sue scorribande by night col nuemero 9 biancoceleste, ma da buon filosofo e uomo che conosceva i suoi polli chiudeva un occhio e tollerava perchè poi in campo loro due davano il fritto.
Renzo col mitico massaggiatore Trippanera

Peraltro quelle scene da Dolce vita qualche anno prima si erano già avute con Arrigo Dolso, "il piede sinistro di Dio" secondo i fedelissimi della Curva, solo che il biondo centrocampista coi calzettoni bassi il giorno dopo in partita ti faceva venti minuti di tocchi e doppi passi e poi si accasciava perchè non gli reggeva la pompa, mentre Renzo il bello la mattina tornava ad essere il professionista serio ed impeccabile dal primo al novantesimo minuto.

Protagonista molto nel bene e un po' nel male, di dieci stagioni vissute nella Lazio. Straordinarie quelle dei primi anni, quando faceva impazzire i tifosi con la sua tipica finta sulla fascia destra e ultimo passaggio in cerca di Chinaglia, meno con il passare del tempo, quando quella finta si era maliconicamente ammorbidita e la Lazio iniziava il declino.

Spalla ideale di Giorgio Chinaglia dicevamo e poi del talento nascente Bruno Giordano, il numero 7 biancoceleste era pronto anche ad approfittare delle distrazioni su di lui degli avversari intenti a controllare appunto Chinaglia e poi Giordano, per segnare reti pesantissime. Vediamo. 7 nella prima stagione con il primo in serie A e in biancoceleste, decisivo per il risultato, nella seconda partita di campionato in casa della Fiorentina.

Da ricordare poi quello d’apertura nel derby di ritorno dell’11  marzo 1973 ( vinto 2-0 con il contributo dell’autogol di Santarini), e nella domenica successiva la doppietta nel 2-0 di Palermo. 10 nell’anno dello scudetto con la chicca in Lazio-Foggia del 12 maggio 1974 di essersi procurato il rigore poi trasformato da Giorgione che valse la vittoria e il titolo di Campioni d'Italia tanto agognato.


Dopo aver portato a termine il sogno Scudetto, inizia però, neanche troppo lentamente (Maestrelli si ammala e poi ci lascia, parte Chinaglia) il declino della Lazio e dello stesso Garlaschelli. In questo periodo sarà la spalla di Brunetto da Trastevere fino all’inizio degli anni ’80, quando si carica sulle spalle la Lazio travolta dal calcio scommesse e la porta alla salvezza sul campo insieme al golden boy Vincenzino D’Amico.

L’arrivo di Castagner e la conseguente rivoluzione lo portano ai margini della prima squadra, dove resterà facendo la spola tra la tribuna e la panchina per altre due annate. Nell’estate del 1982 lascia la Lazio con l'eco dell'ultima contestazione nelle orecchie (ridacce li sordi. So' dieci anni che stai a rubà lo stipendio) e la Capitale tanto amata e vissuta intensamente per tornare dalle sue parti e giocare due stagioni nel Pavia prima di appendere definitivamente gli scarpini al chiodo.

Ora con qualche chilo in più e tanti capelli in meno, il Garla si gode la pensione dell'Enpals a casetta senza remore e rimpanti, interviene nelle radio private a tinte biancazzurre con quel curioso slang romanesco alla Celentano di "Rugantino" per dispensare anedotti irresistibili e pillole di calcio.

E' passato dalle feste col Principe Giovannelli delle Notti romane alla briscola al bar, dalle fuoriserie fiammanti alle bici parcheggiate sotto i portici, da sfondi alle giornate col Colosseo a quelli con muccche al pascolo. Ma non si lamenta, se la gode lo stesso. Auguri Garla, vecchio leone di una Lazio indimenticabiile, ti vogliamo sempre bene, così come eri e come sei diventato.

sabato 28 marzo 2020

La prima cosa bella, un'emozione da 50 anni

di FRANCESCO TRONCARELLI


Strano paese il nostro. Puoi vincere Saneremo, Canzonissima e vendere milioni di dischi, ma puoi finire ugualmente nel dimenticatoio al pari di uno sconosciuto qualsiasi che aveva provato a sfondare. Se passa il momento d'oro e non hai santi in paradiso ma solo la tua voce, puoi stare tranquillo che la parola fine alla tua carriera è dietro l'angolo ad aspettarti.

Magari non una fine drastica, perchè poi in fondo lavori sempre, ma se ti mancano i media, se non ti chiamano in televisione (che vedono tutti) e non ti mandano per radio, sei fuori dai giochi, finisci nel dimenticatoio appunto. Non c'è da noi, al contrario di nazioni come la Francia e l'Inghilterra, la considerazione dell'artista a prescindere delle età e delle mode, la cultura del rispetto per chi ha regalato emozioni. Quando mai.

Nicola Di Bari che giusto 50 anni fa trionfava al Festival con un brano entrato nella memoria collettiva come "La prima cosa bella" è uno di quelli messi da parte, pur essendo bravo, pur avendo dominato in lungo e largo. E pur avendo fatto una gavetta che garantiva per lui, pur essendo stato premiato per la sua tenacia di arrivare per la sue qualità di interprete, intenso e dalla voce calda e avvolgente.

Canzonissima, primo

E si che di gavetta ne ha fatta tanta. Il suo ingresso nel mondo della musica avvenne dalla porta del magazzino. Tra i tanti mestieri che il giovane Nicola emigrato a Milano e registrato all'anagrafe di Zapponeta come Michele Scommegna, esercita per sbarcare il lunario, infatti ci sono quello di operaio addetto alle presse e magazziniere in un'industria discografica. Un percorso analogo peraltro ad altri futuri big come Tony Dallara che faceva il fattorino alla Musica prima di spiccare il volo verso il successo.

Il primo passo fra le sette note risale al 1964, quando porta al Cantagiro "Amore ritorna a casa", cover del brano di Hoagy Lands "Baby come on home". Da allora parte la trafila di partecipazioni alle solite manifestazioni canore, routine inevitabile per chi voleva promuovere i propri dischi in quegli anni, leggi Cantagiro, Disco per l'Estate, festival. In più, una quarantina di serate all'anno da cui, togliendo le spese dei viaggi, del complesso e del vitto, non restava poi granché.

La svolta arriva nel 1967 quando viene ingaggiato dalla RCA e il suo repertorio passa da riproposizioni di brani rock e beat a raffinate canzoni d'autore. Sono di questo periodo "Il mondo è grigio, il mondo è blu" di Eric Charden e "Eternamente" di Chaplin. Pezzi che lasciano il segno e lo fanno considerare anche dai palati fini

in trionfo al Cantagiro

Ma non basta però per sfondare. Gli manca sempre qualcosa per vincere la sua sfida. Nicola, amareggiato, sta per mollare tutto. E proprio quando stava dandosi per vinto, proprio quando si era arreso all'evidenza di un mondo dello spettacolo che considerava solo la bella presenza e l'appeal sul pubblico, a discapito della preparazione e della professionalità, proprio quando anche la RCA stava per dargli il benservito, ecco l'ultima occasione, un brano da cantare a Sanremo in coppia con Morandi.

La svolta avviene nel 1970 grazie a Lucio Battisti che l'aveva preso a benvolere e gli aveva arrangiato un pezzo che Nicola aveva scritto per la nascita della figlia Ketty, la prima cosa bella della sua vita. Lo segnala ai vertici della RCA. Si può fare andra al festival ma andrà con Morandi. Una grande occasione insomma, ma anche un bel trappolone. Perchè se le cose fossero andate bene il merito sarebbe andato al bolognese, numero uno assoluto del pop, se invece fossero andate male, la colpa sarebbe stata del "bruttone" che si era trascinato dietro.

Morandi però rinuncia, e la RCA destina al suo posto un gruppo abbastanza noto ma senza un vero successo all'attivo, i Ricchi E Poveri, prodotti da Edoardo Vianello con la benedizione di Califano. Il risultato è di quelli impensabili alla vigilia. "La prima cosa bella" arriva seconda al Sanremo del 1970 dietro a Celentano che vince con la ruffianissima "Chi non lavora non fa l'amore" e che nel tempo poi sarà dimenticata da tutti, mentre il successo va alla sua canzone che 50 anni fa proprio in questi giorni arrivava al vertice della Hit parade.

coi Ricchi e Poveri secondo
"La prima cosa bella" è una ballata in stile folk, pochi accordi di chitarra eseguiti da Lucio Battisti, con l'accompagno di Franz Di Cioccio, Damiano Dattoli, Andrea Sacchi e Flavio Premoli, musicisti che spesso collaboravano con lui a cui l'arrangiatore Gianfranco Reverberi aggiungense semplicemente l'orchestra d'archi diretta da lui. Il testo è essenziale e chiaro scritto da Mogol, il ritornello è cantabile ma non banale. Ma l'alchimia è perfetta per emozionare il pubblico.

Il brano poi a testimonianza della sua intensità e presa sul pubblico, ha dato il titolo al pluripremiato film di Paolo Virzì interpretato da Micaela Ramazzotti e fa parte della sua colonna sonora nell'interpretazione suggestiva di Malika Ayane 

Secondo nel 70, ma vincitore a Sanremo l'anno dopo con "Il cuore è uno zingaro" insieme a Nada e l'anno successivo primo a Canzonissima con "I giorni dell'arcobeleno". Nicola Di Bari insomma è la musica in Italia. Tutti lo cercano tutti lo vogliono. Pure all'estero. "Vagabondo" è un altro successo che lo porterà ad essere una stella di prima grandezza in Europa e nei paesi di lingua spagnola in Sudamerica. Maradona ha raccontato che il suo cantante preferito, quando era in Argentina, era Nicola Di Bari. Così, per dire.

Nicola Di Bari, il ritorno

Ma il buon Nicola non è tipo da lasciarsi montare la testa. Con la carriera costellata di alti e bassi non si è mai tirato indietro, ricominciando da capo dopo ogni delusione. Possiamo dire però tranquillamente che le delusioni di Di Bari all'epoca farebbero il successo pieno di un "artista" di oggi con la sua musica usa e getta e i suoi successi da diecimila copie.

L'oblio lo vive serenamente, nella sua Zapponeta con la moglie e tornando ogni tanto in Sud America a cantare per fa la vita meno amara con tournèe affollatissime. Sentite "El corazon es gitano" la versione spagnola de "Il cuore è uno zingaro": per certi versi è migliore dell'originale. Nicola di Bari, come dire dalle stelle alle stalle, dagli applausi all'indifferenza andata e ritorno ma con dignità e classe a prescindere.

E per ritrovarlo sulle pagine degli Spettacoli di tutti i giornali c'è voluto Checco Zalone, l'irriverente del nostro cinema che l'ha voluto nel suo "Tolo Tolo" per la divertente parte dello zio cardiopatico. Ma non solo, perchè Checco ha inserito la sua "Vagabondo" nella colonna sonora del film. Insomma ci voleva un fuoriclasse senza padroni per ricordare Nicola Di Bari e rendergli omaggio. Cose che succedono solo da noi. 

venerdì 27 marzo 2020

Quando il Reuccio incantò Sinatra

di FRANCESCO TRONCARELLI


Una leggenda metropolitana racconta che tra le tante corone inviate al funerale di Claudio Villa (Pippo Baudo, Massimo Raneri, Comune di Roma, fan), ci fosse anche quella di Frank Sinatra. Possibile? Forse, chissà. Molti addetti ai lavori però a questa voce che girava fecero spallucce, avanzando seri dubbi che i due si conoscessero. Probabilmente erano gli stessi che quando Mino Reitano diceva che aveva conosciuto i Beatles, alzavano gli occhi al cielo e si mettevano a ridere.

A farli ricredere e a farli passare dalla risata allo stupore, ci pensò addirittura Paul McCartny che, ospite a Sanremo, chiese "dove Benjamin, lo vorrei salutare", poi definitivo, ove ce ne fosse stato ancora bisogno, il ritrovamento da parte di chi scrive, di una foto che ritrae il locale di Monaco dove si esibivano i Fab Four e Benjamin and his brothers (la famiglia canterina dei Reitano) con i loro nomi sull'ingresso a mo' di richiamo. Una foto che ha fatto il giro del web insieme al mio articolo.

Ora spunta un'altra foto che testimonia inequivocabilmente un altro incontro, che i soliti noti abituati a denigrare con la loro proverbiale spocchia i nostri artisti popolari, non avevano messo in conto. Frank Sinatra e Claudio Villa che si stringono la mano. Sì proprio loro, The Voice e il Reuccio, il più grande cantante americano e il più grande cantante italiano senza se e senza ma. Due numeri uno conosciuti ovunque e che hanno scritto la storia della musica.

Fu scattata nel 1953 in occasione della prima tournè in Italia del cantante americano. Vero e proprio divo negli States al pari di Bing Crosby, a 38 anni era già famoso a livello internazionale come The Voice. Era appena uscito da una tempestosa storia con Ava Gardner "l'attrice più bella del mondo" e aveva interpretato il film "Da qui all'eternità" che gli valse l'Oscar come miglior attore non protagonista.

Il francobollo dedicato al primo successo del Reuccio "Luna rossa"

Villa invece, trasteverino di 27 anni  è agli inizi di una promettente carriera ma dovrà aspettare Sanremo (prima partecipazione nel 55 con tanto di vittoria), per spiccare il volo definitivamente e diventare uno dei beniamini del pubblico: Corrado conquistato dalle sue doti vocali intanto, lo ha appena ribattezzato affettuosamnte Reuccio nella sua seguitissima trasmissione "Rosso e Nero", titolo che lo consacrerà come protagonsita dello spettacolo italiano.

L'incontro fra i due fu combinato da alcuni amici comuni a Firenze. Ammiratore dell'artista americano, Claudio lo vuole conoscere a tutti i costi e lo scatto testimonia proprio il piacere da parte sua di questo momento tanto atteso. In quello sguardo entusiasta di Villa c'è la felicità per essere a tu per tu con un artista conosciuto in tutto il mondo, e conscendolo, il sogno di poterlo emulare.

L'occasione è propizia per regalargli il disco di "Luna Rossa" (il vinile della Vis è nella mano di Sinatra) una canzone al tempo di beguine tipica delle atmosfere degli anni 50, che farà il giro del mondo e con cui l'artista romano sta battendo tutti i record di vendita.

Ecco da questo disco scambiato fra i due nasce non proprio un'amicizia, ma un rapporto di reciproca stima che nel corso degli anni resterà sempre vivo anche se sconosciuto ai più. Sinatra tornato intanto negli States, affascinato da quel brano scritto da Vincenzo De Crescenzo (zio di Edoardo interprete di "Ancora") e musicato da Vian in cui il divo Claudio gorgheggia l'invocazione alla Luna battendo ogni record di vendita, decide di inciderla anche lui. Successo.


Quando qualche anno più tardi Claudio sarà in tournèe a New York, i paisà accorreranno ad ascoltarlo e lui omaggerà Frank interpretando "Solo più che mai", la cover italiana di "Strangers in the night", il brano che aveva permesso all'artista americano di risalire la china in tutto il mondo dopo un calo vistoso per l'avvento sulla scena musicale della Bristish Invasion (Beatles, Rollling Stones, Who ecc.) che manda in pensione i "vecchi" artisti. Quello che succedeva in Italia a Villa con l'avvento dei complessi beat e dei capelloni.

Sinatra comunque gradisce, gli amici comuni fanno da tramite e portano i saluti, ma non solo, Frank in qualche modo ricambia, infatti decide di proporre anche lui "Granada" il cavallo di battaglia del Reuccio con cui lo stesso ha stravinto a "Canzonissima" (boom di cartoline inviate dal pubblico) e messo a tacere i suoi contestatori letteralmente annichiliti non tanto dalla sua grinta poverbiale, ma da quell'acuto incredibile con cui chiude la canzone e che Arbore poi riproporrà a mo' di tromentone nel suo programma "Miei cari amici...".

Sinatra e Villa, Frank e Claudio, The Voice e il Reuccio. Qualcosa in più di una semplice conoscenza, qaulcosa in meno di una grande amicizia. Sicuramente un rapporto di stima consolidato nel tempo. Quante storie nasconde una foto ritrovata, quanti similitudini nelle carriere di due grandi personaggi dello spettacolo, quante cose ancora devono uscire dagli archivi privati, dai ritagli dei giornali e delle riviste e dalla memoria di chi c'era e le ha vissute.

Là dove non arriva internet arrivano per fortuna i racconti, le testimonianze e i ricordi. E vederete che prima o poi usciranno altre chicche date per certe ma finite chissà dove. Magari qualche biglietto di auguri, una foto con dedica, una ricevuta di una corona di fiori.

giovedì 26 marzo 2020

Addio Detto Mariano, gigante del pop

 di FRANCESCO TRONCARELLI


Questa è la storia di uno di loro, di quei giovani che insieme al ragazzo della via Gluck trovarono la loro strada per diventare artisti di talento. Cantanti, musicisti, parolieri, arrangiatori. Un gruppo in gamba ed affiatato che con Celentano ha contribuito a svecchiare la musica italiana, portando rock, giovinezza e tanta tanta creatività.

Lui era Detto Mariano, pilastro del Clan del Molleggiato, quella sorta di club alla Frank Sinatra dove risiedevano nomi come Gino Santercole, Don Backy, Ricky Gianco, Natale Massara, Micky Del Prete e i Ribelli. Adriano lo aveva conosciuto durante il servizio militare di leva a Torino e se l'era portato con sè perchè gli serviva uno bravo come lui con le tastiere e soprattutto con le idee per fare diventare un pezzo strimpellato e buttato giù alla buona una canzone vera.

Sbarcò così a Milano nella capitale morale del Bel paese con la sua valigia piena di sogni e di passione per la musica, senza un quattrino in tasca ma tanta voglia di dire la sua. Dormiva da Jack la Cayenne, il fantasista che ballava il rock and roll da Dio e andava a mangiare al Giglio rosso, dove con 1000 lire primo secondo e frutta erano assicurati, con Don Backy l'altro fuorisede del Clan, faceva base “da Francesco”, locale davanti all’Università Statale, dove pensava, si confrontava con gli altri e studiava una materia che stava facendo impazzire tutti: i dischi.

È morto nella notte a Milano, in seguito al peggioramento delle sue condizioni dopo aver contratto il coronavirus. Aveva 82 anni e fino a dieci giorni fa era in ancora in attività. Ad annunciare su Facebook la sua scomparsa, l'amico Gianni Dell'Aglio, ex batterista dei Ribelli: "La notte scorsa Detto Mariano ci ha lasciato... Resterà nella storia della musica italiana e nel cuore di tutti i suoi amici".
Celentano e Detto un'amicizia nata col servizio militare

La notizia si è diffusa immediatamente sui social suscitando scalpore e rammarico non solo fra i suoi colleghi e amici come Gerry Bruno dei Brutos, Bobby Solo, Al Bano (è stato il mio Virgilio"), Michele Bovi, Cristina D'Avena, "Befanino" Massara, Shell Shapiro dei Rokes, Tonino dei Camaleonti, Gianfranco Raffaldi ex Rockers di Peppino di Capri, Piero Cassano dei Matia Bazar e Renato Pozzetto, ma anche fra le gente comune e quanti lo apprezzavano come musicista e persona simpatica e alla mano.

Detto Mariano, all'anagrafe Mariano Detto (fu Celentano a invertirgli il nome) era nato a Monte Urano nelle Marche, in provincia di Fermo ed era una leggenda della musica italiana per avere realizzato gli arrangiamenti di alcune canzoni entrate nella storia del nostro pop. Inizialmente quelle del Clan, tutte. Da "Sei rimasta sola" a "Il ragazzo della via Gluck" da "Il problema più importante", a "Ringo", da "La ragazza del Clan" a "Canzone" da "Si è spento il sole" a "L'immensità".

Poi quelle di altri artisti. "Nel sole" per Al Bano, "Zingara" e "Siesta" per Bobby Solo, "Un sorriso" per Milva, "Tutta mia la città" per l'Equipe 84. E poi per i Camaleonti "L'ora dell'amore", "Applausi" "Eternità" solo per citarne alcune di un repertorio sterminato. Con Lucio Battisti ha curato l’arrangiamento di pezzi fondamentali come "Mi ritorni in mente", "Acqua azzurra, acqua chiara", "Fiori rosa, fiori di pesco", "Emozioni" capolavori che non sarebbero tali se non ci fosse stato il suo lavoro dietro le quinte.


Uno studio appropriato e cucito sulla vocalità dell'interprete per esaltarne le qualità e creare la giusta atmosfera. Avete presente l'intro di "Insieme"? Quel piano che suona col coro in sottofondo e che introduce Mina che sussura "Io non ti consco, io non so chi sei, so che hai cancellato con un gesto i sogni miei"? Beh, si deve a lui. Autore di fatto insieme a quei geni di Mogol e Battisti di una gemma indimenticabile.

Detto Mariano gigante del pop

Mariano del resto è sempre stato convinto che "un buon arrangiatore, quando fa bene il suo lavoro, è anche autore di un brano e il suo nome dovrebbe comparire accanto a quelli dell'autore del testo e dell'autore della musica". Grazie a una sua petizione, lanciata una decina di anni fa e sottoscritta da numerosi musicisti italiani, dal marzo del 2010 la Siae ha riconosciuto questo diritto per gli arrangiatori in tutti quei casi in cui "l'arrangiatore, in sede di stesura definitiva di un’opera originale, abbia apportato un intervento creativo e compositivo". Come è giusto che sia.

Fu questo però il motivo dello screzio insanabile col compagno di tante avventure di vita e d'arte Don Backy (che ha visto però respinte nelle sedi giudiziarie le sue rivendicazioni per la paterintà de L'Immensità ed altri brani) che all'epoca non essendo iscritto alla Siae non poteva figurare nei credits, che di fronte alla morte dell'ex amico ha scritto:

“Inutile dire che la notizia mi ha agghiacciato. Solo gli stupidi potranno pensare il contrario, in base alle nostre vicende tumultuose sulla paternità delle canzoni. Ciononostante non sarò ipocrita a tal punto, da non restare fermo sulle mie posizioni di sempre, nei suoi confronti. Ormai, non ci sarà più tempo per convincerlo a restituirmi la parte che si è annessa di quei brani, senza averne titolo, e spero che il peso di quella storia e della terra gli sia comunque lieve”.

Sanremo 1968, Mariano e Don Backy con la Vanoni e Marisa Sannia seconde con Canzone

Anche con Celentano lo divideva una causa ancora in corso a Milano a proposito di "Prisencolinensinainciusol", primo rap della storia nel mondo, ma ora che non c'è più poca importa chi avesse ragione. All right.  Negli anni 80 Detto si dedicò anche alle colonne sonore dando un'ulteriore dimostrazione del suo estro. Ha firmato, tra le altre quelle di film popolarissimi come "Il bisbetico domato", "Qua la mano" e "Asso", "Mia moglie è una strega", "La casa stregata", "Il ragazzo di campagna", "Yuppi Du", "Eccezzziunale... veramente" e tutti quelli con Tomas Milian.

Ha composto poi alcune delle sigle più celebri dei cartoni animati del periodo, come "Mazinga Z", "Judo Boy", "Gundam", "Astroganga", "L'avventura della dolce Katy", "Temple e Tam Tam", "Piccola Lulu", "I bon bon di Lilly". Viveva tra Milano e Roma, dove lavorava e possedeva una casa piena di ricordi e cimeli in zona Prati. Aveva ricevuto un Leone d'oro alla carriera ed era stato nominato cittadino onorario di Poggio Bustone, il paese natale di Lucio Battisti.

Questa è la storia di uno di quelli partiti dalla via Gluck alla conquista del mondo. Lui c'era riuscito anche se i media non l'hanno ricordato a sufficienza nel momento del suo triste addio e, qualcuno, leggi TG delle varie emittenti, lo hanno addirittura ignorato. Già troppo presi e giustamente, a celebrare Mina per i suoi splendidi 80 anni, non sapendo che nell'ulimo album della Tigre con Celentano "Le migliori" c'era la sua mano. Come sempre. La mano di un gigante del pop dal nome che era un cognome, Detto Mariano.  


mercoledì 25 marzo 2020

Mina, 80 anni da regina

di FRANCESCO TRONCARELLI


Unica. Come si può definire la più grande cantante italiana di sempre se non unica? Mina è unica perché è Mina, la più brava, la più carismatica, la più popolare di tutte anche se sono anni che non si vede più in giro.

Unica per la voce strepitosa che ha, capace di far suonare le parole e far parlare le note, una voce inconfondibile per timbro ed estensione che dal fa basso arriva sino al do sovracuto del pentagramma, che è quello del soprano.

Unica per la capacità di dominare la scena senza bisogno di tanti fronzoli o scenografie galattiche e per il coraggio di essersi ritirata dalla ribalta nel pieno del successo (l’ultima esibizione alla “Bussola” di Viareggio nel ’78) rinunciando ad una carriera internazionale e ad una marea di soldi.

Unica per i brani che ha cantato e che sono entrati nella storia della nostra musica. E anche oggi che compie 80 anni, rimane unica per la sua decisione di vivere questa ricorrenza coi suoi affetti più cari, nel buon retiro di Lugano, senza concessioni di sorta al circo mediatico che si mobilita per questi eventi.


Mina su Sorrisi:la prima e l'ultima copertina

Del resto lei ha già dato al gossip con le migliaia di servizi e copertine dei periodici specializzati (solo “Sorrisi e Canzoni” gliene ha dedicate 101) e no che hanno accompagnato ogni suo passo dagli esordi e scandagliato la sua vita privata (dalla storia con Corrado Pani, attore sposato, che le costò l’ostracismo Rai alle foto rubate durante lo shopping con l’attuale marito il chirurgo Quaini), vivendo così sulla sua pelle il lato negativo del divismo.

Ma Mina ha sempre avuto le spalle larghe ed è riuscita negli anni ad imporsi e farsi apprezzare per le sue qualità, continuando a vivere sotto i riflettori la sua vita senza falsi moralismi come donna, artista ma anche madre premurosa.

Una condizione particolare a cui si è aggiunto il ruolo di manager di se stessa che si è ritagliata nel tempo con l’ausilio del figlio Massimiliano e che la vede impegnata nell’ascoltare gli oltre 3mila provini di autori che riceve ogni anno per trovare il pezzo giusto da incidere.

Da urlatrice con Celentano, Joe Sentieri e Tony Dallara a signora della canzone in solitaria. Una carriera straordinaria che l’ha vista protagonista assoluta dei sabato sera della Tv (Studio Uno, Canzonissima, Senza rete, Teatro 10, Milleluci) con duetti e sketch coi nomi più importanti dello spettacolo e a lungo dominatrice della Hit parade.

Mina e Corrado Pani, uno "scandalo" nell'Italia bigotta

Un’icona della femminilità con quel suo look tipico nel trucco e nell’abbigliamento (la prima ad esibirsi negli spettacoli televisivi in miniabiti), che dava ulteriore risalto ad un fisico statuario che faceva sognare a colori anche se la televisione era in bianco e nero.

Cremonese doc (“la tigre di Cremona” secondo la famosa definizione di Natalia Aspesi), nata per caso a Busto Arsizio e registrata come Mina Anna Maria Mazzini, ha cominciato per caso. Mentre era in vacanza a Forte dei Marmi con la famiglia nell’estate del ‘58, fu invitata dagli amici a salire sul palco della “Bussola” di Focette dove in quel periodo si esibiva l’orchestra di Don Marino Barreto jr.

Applausi e incoraggiamenti. A quella prima volta, segue il debutto ufficiale nelle balere della zona dove si fa conoscere per la sua grinta col nome d’arte Baby Gate, prima di scegliere definitivamente il nome Mina con cui all’inizio del 1960, scala subito le classifiche con la scanzonata e travolgente“Tintarella di Luna”.

Celentano e Mina da Urlatori a miti del pop

E’ l’inizio di un successo che non si è più interrotto (150milioni di dischi venduti nel mondo), con decine e decine di canzoni fra le migliaia che ha inciso, che hanno fatto epoca e che fanno parte della memoria collettiva del paese.

Brani come “Le mille bolle blu”, “Il cielo in una stanza”, “E’ l’uomo per me”, “Un anno d’amore”, “Città vuota”, “Se telefonando”,”Vorrei che fosse amore”, “Sono come tu mi vuoi”, “Non credere”, “Insieme”, “Amor mio”,”Parole, parole, parole” “Grande, grande, grande”, “L’importante è finire”, “Volami nel cuore”, “Brivido felino”.

Canzoni fra le più amate di un repertorio sterminato in cui sono entrati anche pezzi lanciati da altri artisti ma che rischiavano di cadere nel dimenticatoio o di non raccogliere il giusto riconoscimento, se lei non le avesse riprese.

E il caso per esempio di “E se domani” passata inosservata in un Sanremo nella duplice esecuzione di Gene Pitney e Fausto Cigliano e con lei diventata un punto fermo della musica italiana o “Breve amore” colonna sonora di “Fumo di Londra” di Alberto Sordi che riproposta con la sua voce, ha oscurato l’originaria interprete Julie Rogers.

Minissima

Perché la sua voce è unica come dicevamo, l’ha fatta diventare a ragione un mito e a 80 anni ha mantenuto lo smalto di una volta come gli album che sforna puntualmente ogni hanno confermano, l'ultimo com Ivano Fossati ci ha regalato un "Luna Diamante" da brividi forti.

Sì perché la Tigre alla bella età che ha raggiunto, continua a ruggire facendo il suo mestiere con passione e piacere, tenendosi aggiornata sulle novità del panorama musicale, senza perdere l'occasione di collaborare con artisti più giovani per togliersi qualche sfizio, come dimostrano lecollaborazioni con Alex Britti, Aftherhourse e Mondo Marcio.

Ecco perché Mina è unica. Perché anche a 80 anni è sempre lei, la più brava di tutte. Perché è Mina, sempre Mina, fortissimamente Mina. Minissima!


PS Per la prima volta Mina raggiunge il traguardo discografico del primo posto nelle vendite con Il cielo in una stanza che entra in classifica al settimo posto nell'estate 1960 e sale fino al primo, rimanendo in classifica fino all'inizio dell'anno successivo. Il video è tratto dal film "Appuntamento ad Ischia" con Modugno, alle spalle della Tigre compare nel gruppo un esodiente Pippo Franco.

La canzone fu proposta a Mina da un giovane Mogol, ma lei non era convinta, in effetti il brano era già stato rifiutato da altre interpreti, tra cui Jula De Palma e Miranda Martino. L'autore, Gino Paoli (che non compare nei credits perché non ancora iscritto alla SIAE), gliela fa ascoltare al pianoforte e alla fine l'artista la incide. E nasce il capolavoro. Ecco, questo brano arrangiato superbamente da Tony De Vita,  ha 60 anni ma sembra attuale come al primo ascolto grazie alla voce di Mina

martedì 24 marzo 2020

Quando servirebbe solo il Silenzio...

di FRANCESCO TRONCARELLI



Fateci caso, le canzoni dal balcone hanno diminuito il loro impatto sulla gente. Da idea intelligente per scuotere gli animi e infondere speranza, sono via via scivolate in stanche riproposizioni di un rituale scenografico che ha svilito il suo intento originario. Ha svuotato la sua efficacia favorendo insopportabili esibizioni egocentriche che hanno invaso i social alla ricerca di un like.

Dal senso di comunità legittimamente invocata alla caciara dispersiva e chiassosa per fare bella figura con gli amici insomma, il passo è stato breve purtroppo, e resta l'amaro in bocca a chi ha creduto di fare, cantando e con la musica, una cosa "buona e giusta".

Come spesso avviene, si è tirata troppo la corda pur di fare notizia privilegiando l'apparire all'essere e a questa situazione di protagonismo forzato che ha annullato la partecipazione spontanea iniziale, hanno fatto da terribile contraltare le notizie delle tante persone decedute quotidianamente. Le immagini dei camion dell'esercito che portavano via le bare da Bergamo hanno stordito tutti.

Molti perciò hanno detto basta e hanno pensato di fermare "le balconate" per rispettare tanto dolore, tanti l'hanno ribadito e qualcuno ha suggerito il silenzio. Già, quel silenzio che invocava l'Amleto di Shakespeare in punto di morte "....il resto è silenzio" e che fa tornare alla mente una musica, questa sì meno appariscente e più intima, legata a una celebre canzone che quel silenzio momento di riflessione e intimità, celebrava.

il 45 giri

E' un brano che è stato famosissimo ma incredibilmente dimenticato,  un pezzo che quando fu inciso ebbe un successo clamoroso e che fece il giro del mondo. E' stato dimenticato come il suo interprete, Nini Rosso, talentuoso trombettista con una buona carriera di jazzista e di solista nell'orchestra del mitico maestro Cinico Angelini, quello dei festival di Sanremo e della Rai e poi con Fineschi e Armando Trovaioli, che da giovane era stato partigiano nelle Langhe con Giorgio Bocca.

E' "Il Silenzio" appunto, 45 giri del 1965 che rielaborava quello più austero e corto che veniva eseguito durante le cerimonie militari o per sancire il fine giornta nelle caserme. Il suo pezzo riarrangiato con Willy Brezza, musicista e autore delle colonne sonore di tanti musicarelli (Zum zum zum, Riderà, Cuore matto ecc.) era infatti il silenzio fuori ordinanza che prevedeva anche un testo recitato tra uno squillo di tromba e l'altro.

11 milioni di copie. Un botto, il disco italiano più venduto in Europa di sempre e che solo dieci anni dopo nel 75 sarà raggiunto con lo stesso numero, disco più disco meno, dai Santo California con "Tornerò". Il motivo del successo era presto detto. Il pezzo per ambientazione e atmosfere che evocava, era inevitabilmente legato alla Naia, al periodo di un anno in cui i ragazzi indossavano la divisa per il servizio obbligatorio di Leva vivendo una realtà nuova lontano da casa.

Un mondo e una stuazione che oggi sembrano legati all'Età della pietra, ma che per decenni invece (è durato fino al 2004) sono stati vivi e vegeti, nel bene, di chi li ricorda con la nostalgia della gioventù, e nel male di chi li ha sempre bollati come un anno perso e comunque troppo "militaresco".

 Nini con Louis Armstrong

E pensare che quel successo internazionale (Dalida ne incise una versione in francese molto suggestiva "Bonsoir mon amour"), nacque per caso. In un concerto al PalaEur di Roma, di fronte a un pubblico militare, Nini Rosso decise di eseguire il Silenzio fuori ordinanza con una malinconica parte recitata in aggiunta, nella quale descriveva la solitudine del soldato di leva che dà una romantica buonanotte alla sua fidanzata lontana.

L'accoglienza da parte di quei giovani con le stellette provenienti da tutta l'Italia, fu esplosiva. Dovette eseguire un bis. La casa discografica fiutò l'affare e il brano venne così stampato immediatamente iniziando la sua diffusione nel Bel paese con picchi di vendite anche in tutta Europa fino al Giappone, dove Nini Rosso fece numerose tournée accolto come un divo.

Era quello che in sostanza succedeva al cinema con i film di Gianni Morandi (In ginocchio da te, Se non avessi più te, Non son degno di te) tutti ambientati in una caserma, fra soldati di leva, sergenti rompiscatole, compagni di camerata casinari, colonelli burberi ma simpatici e fidanzatine in attesa, che incassavano soldi a palate e tenevano alto il morale della truppa che si rispecchiava in quelle storie amorose ma anche da ridere.

Quel pezzo fu il colpo della sua vita e lo rese uno dei beniamini del pubblico italiano, con partecipazioni a numerosi film commerciali e di cassetta e incisioni di altri brani tra cui "Uomo solo", sigla della serie televisiva "Sheridan, squadra omicidi" con il grande Ubaldo Lay nei panni del famoso Tenente americano.

Merita dopo tanti anni il riascolto come "cimelio" di un'epoca vissuta da tanti e che fa comunque riflettere. Quel crepuscolo di suggestioni e ricordi, delle cose che passano, del giorno nascosto tra le note fra malinconia e pensieri a chi non c'è più è lì che ci aspetta. Perchè tutto "il resto è silenzio".

lunedì 23 marzo 2020

75 anni per Battiato, il maestro che conosce la Cura

di FRANCESCO TRONCARELLI



Franco Battiato, centro di gravità permanente del pop italiano compie gli anni. Una ricorrenza da celebrare sicuramente perchè si tratta di un artista tra i più innovativi e multiformi che ha dato tanto alla musica italiana. Per alcuni un genio assoluto, per molti un maestro da seguire. Per tutti un grande sperimentatore che ha saputo mescolare vari generi, dalla musica elettronica a quella classica, con testi avanguardisti e ricercati. 

Mentre da tempo si rincorrono voci sul suo stato di salute, oggi compie 75 anni e chi lo apprezza attende fiducioso un suo ritorno sulle scene sulla scia del suo ultimo lavoro, non a caso intitolato proprio "Torneremo ancora", pubblicato qualche mese fa.

La sua vita e la sua carriera sono l'esempio di una passione per la musica incontrovertibile. Partito giovanissimo da Jonia, un paesino in provincia di Catania, Franco arriva a Milano in cerca del successo. Ma è dura per tutti i meridionali come lui venuti al Nord in cerca di lavoro o gloria.

Dopo una lunga gavetta nei localini dei Navigli e della cintura milanese e anche per le strade nel duo "Gli Ambulanti", incide il primo brano su un 45 giri di plastica allegato alla Nuova Enigmistica, è la sua versione di "E più ti amo" di Alain Barriere. Una perla su un disco usa e getta.

Battiato in concerto con Alice

Fu Gaber a consigliargli di farsi chiamare Franco anziché col vero nome Francesco, per non confondersi con Francesco Guccini, giovane esordiente insieme a lui nel programma "Diamoci del tu" che l''autore di "Barbera e champagne" conduceva con Caterina Caselli.  

Da quel momento iniziò una lunga scalata verso il successo, salendo disco dopo disco tutti i gradini necessari per arrivare in cima. Nel 1979 pubblica "L’Era del Cinghiale Bianco", primo esperimento pop con l'etichetta Emi. Seguono "Patriots" (1980) e, nel 1981, "La voce del Padrone", che resta al vertice della classifica italiana per un anno vendendo oltre un milione di copie. Battiato diventa un “caso”, materia di studio per gli intellettuali e fonte d'ispirazione per i musicisti.

Gli album successivi sono: "L’arca di Noè" (1982), "Orizzonti perduti" (1983), "Mondi lontanissimi" (1985), "Echoes of sufi dances" (1985). Nel 1984 Battiato partecipa con Alice all'Eurovision Festival con i "Treni di Tozeur", arrivano quinti ma la loro esibizione è memorabile. 

Nel 1989 esce il doppio album dal vivo "Giubbe rosse" ripubblicato da qualche giorno in occasione del trentesimo anniversario. È forse il suo album forse più iconico. Fino a quel momento Battiato era ancora uno dei pochissimi cantautori italiani che non aveva ancora pubblicato un disco dal vivo. Decise di farlo solo dopo aver terminato una tournee realizzata con tutte le caratteristiche che egli stesso desiderava, dal clima tranquillo all'atmosfera che si creava col pubblico attento e coinvolto.


Il tour toccò città come Parigi dove suonò al Teatro de la Ville (dicembre 1988) e come Madrid all'Alcalà Palace, per poi terminare al prestigioso Teatro Lirico di Milano per l'apoteosi finale. Ne venne fuori "Giubbe Rosse", testimonianza e pietra miliare del nuovo pop che Battiato portava nelle classifiche di quel decennio.

Negli anni seguenti Battiato comincia a guardare al mondo del cinema. Una vera passione che inizia nel 1990 con la colonna sonora composta per il film Benvenuto Cellini – Una vita scellerata per arrivare nel 2003 alla regia di "Perduto amor" che gi varrà il Nastro d'argento. Poi nel 91 incide "Come un Cammello in una grondaia".

L’album contiene, accanto ad alcuni lieder ottocenteschi, anche il brano "Povera Patria", registrato negli storici Abbey Road Studios di Londra già regno incontrastato dei Beatles, che diviene in breve tempo un simbolo di impegno civile.

E ancora tanti altri successi, un elenco interminabile che sarebbe superfluo citare, che hanno arricchito la sua lunga carriera da sperimentatore dai mille interessi (fisica, pittura, cinema, teatro, lirica, balletto), da personaggio eclettico sempre avanti sui tempi che si è fatto amare dal pubblico più raffinato e da quello più popolare, elevando la sua natura pop ad altro.

col filosofo Sgalambro

Fondamentali i collaboratori che lo hanno accompagnto in questo percorso, ossia il violinista Giusto Pio e il filosofo Manlio Sgalambro che con il loro bagaglio artistico e culturale hanno arricchito la sua personaltà, indimenticabili certi brani come "E ti vengo a cercare", "Voglio vederti danzare", "La stagione dell'amore", "Cerco un centro di gravità permanente", "Bandiera bianca" e "Cuccurucucu" che sono diventati fra i più amati della musica leggera italiana.

C'è poi un pezzo che in questi giorni di drammatiche sofferenze, sembra un adesivo incollato alle nostre voci. In tanti hanno fatto ricorso al potere salvifico della musica e delle parole de "La Cura", scritta da Franco Battiato col filosofo Manlio Sgalambro, suonata e risuonata dai balconi e dalle finestre degli italiani chiusi in casa.

Diodato, l'artista che ha vinto l'ultima edizione di Sanremo, ne ha eseguito un'intensa versione in una puntata di Che tempo che fa dedicandola all'Italia ferita. A Parma l'hanno proiettata in versione concerto sui muri. La Cura per il coronavirus la troverà la scienza, quella per l'individualità tocca all'essere umano che oggi, purtroppo, ha l'occasione di una nuova presa di coscienza. Auguri maestro.

domenica 22 marzo 2020

Quando domenica era sempre domenica

 di FRANCESCO TRONCARELLI
  


In casa, come tutti i giorni, anche oggi che è domenica, il giorno solitamente da trascorrere "fuori". In giro per una scampagnata, per un pranzo, una rimpatriata fra amici, per andare allo stadio a vedere la partita. Una volta. Sono passati pochi giorni da quando è stato istituito lo stop per qualsiasi tipo di spettacolo o avvenimento sportivo, ma sembra passato un secolo.

La partita? Un ricordo. Abbiamo tutti nella mente le immagini di un campionato esaltante che stava giocando la Lazio. I gol di Ciro, le zampate del Pantera, le magie di Lupo Alberto, gli assalti alla baionetta del Sergente e le strategie vincenti di Simone Inzaghi. Un ricordo.

Come i ventuno risultati utili consecutivi che facevano aspettare la domenica con ansia e gioia per rivedere in campo i nostri ragazzi. Non è più così. Non sarà più così. L'ansia è data da altri motivi, meno ludici e più drammatici che riguardano la stessa vita di tutti noi.
Mario Riva

Resta sì il ricordo, struggente, malinconico di quando domenica era veramente domenica e c'era spzio per tutto: sentimenti, emozioni, piccoli e grandi momenti da vivere con golosità. Un albero in fiore, un mare da cartolina, un piatto fumante di pasta, un bacio alla persona amata, un gol liberatorio dopo tanta sofferenza.

Quando eravamo insomma felici senza saperlo. Viene così in mente un motivo che fece da apripista ai "favolosi anni Sessanta", come è passato alla storia del costume quel decennio, quando l'Italia rimarginate le ferite della guerra aveva ripreso a camminare e si avviava con speranza verso una nuova stagione di successi industriali ed economici che avrebbe garantito il benessere e comunque il lavoro a tutti.

Quella canzone era "Domenica è sempre domenica", ed aveva un titolo che già diceva tutto. Testo semplice ed ammiccante firmato da quei geni della commedia musicale che rispondevano al nome di Garinei e Giovannini su musica del mitico maestro Gorni Kramer.  Era la sigla de "Il Musichiere" game show ante litteram condotto da Mario Riva, attore comico che dall'avanspettacolo in coppia con Riccardo Billi era diventato un personaggio popolarissimo della televisione.

Riva con Totò

Il suo 'Il Musichiere' infatti era l'appuntamento senza rivali del sabato sera sul piccolo schermo e non solo (fu girato un film e fu fatto un gioco da tavolo). Lo vedevono tutti, lo commentavano tutti, ne parlavano tutti. Era un programma  ritagliato su misura su di lui, ne esaltava l'aria scanzonata e quella bonomia che lo contraddistinguevano dagli altri personaggi televisivi e che lo facevano entrare subito in sintonia con gli ospiti nazionali e internazionali che vi partecipavano.

Dalla star hollywoodiana Gary Cooper (“Mezzogiorno di fuoco”) alla diva internazionale Josephine Baker (“J’ai des amour, mon pays et Paris ”), tutti i numeri uno andavano nel suo show come ospiti d’onore, introdotti dopo il tradizionale “Ecco a voi…”, da un avverbio rispolverato dal dimenticatoio dallo scoppiettante Mario e che diventò d’uso comune immediatamente: “nientepopodimeno che …”.

Totò, Alberto Sordi, De Sica, Coppi, Bartali. Erano tutti lì con lui. Fu qui che debuttarono gli "urlatori" Mina e Celentano, era qui che era di casa Johnny Dorelli vincitore con Modugno a Sanremo (Volare oh oh) era qui che si vincevano milioni se si indovinavano i motivi che l'orchestra suonava, dopo aver fatto una corsa per lo studio e suonato una campanella per fermare la musica.

La Lazio di capitan Lovati e il bomber Rozzoni con il lutto al braccio per la scomparsa di Riva

Mario Riva, cantava la sigla del programma “Domenica è sempre domenica”, che scalò subito la classifica dei dischi più venduti stilata dal “Radiocorriere”, e che divenne appunto il simbolo di quegli anni avviati con spensieratezza verso il Boom.

Il Bel paese cantava allegramente quel ritornello semplice e senza pretese che infondeva serenità e ottimismo, fotografando un piccolo mondo antico che di lì a poco sarebbe scomparso con l’esplodere delle nuove mode e dei nuovi modi di vivere e che adesso però sembra un miraggio: “Domenica è sempre domenica/ si sveglia la città con le campane/ al primo din don del Gianicolo/ Sant’Angelo risponde din don dan/ Domenica è sempre domenica/ e ognuno appena si risveglierà/ felice sarà e spenderà, sti quattro sordi de’ felicità”.

E spesso e volentieri quel ritornello lo cantavano anche i tifosi laziali, quando vedevano entrare il “bravo presentatore” in Tribuna. Lo intonavano in coro per ringraziarlo per le sue prese di posizione a favore dei colori biancocelesti (era nel consiglio direttivo della società allora presieduta dall'ingegnere Siliato) e per le battute saporite nei confronti dei cugini che lanciava dai microfoni di Radio Campidoglio.

Col capello tutto impomatato di Brill cream, disponibile e sorridente con tutti, Riva andava alla Tevere con Franco Interlenghi, il protagonista di “Sciuscià” e Roberto Villa, il bello dei Telefoni bianchi, tre laziali veri. Quando gli altri tifosi lo vedevano, molti iniziavano a cantare "Domenica è sempre domenica" e lui rispondeva sventolando una bandierina biancazzurra che teneva in tasca.

Altri tifosi, altri tempi, altre domeniche. Ma che domeniche...



PS: nel filmato tratto dal finale di una puntata del Musichiere, compaiono alcuni personaggi molto noti all'epoca ed altri che diventeranno dei mostri sacri dello spettacolo. Antonio Cifariello il bello dei film poi giornalsta del Telegiornale, Mario Petri col suo immancabile pizzetto quale Achille nei film mitologici, il conduttore principe del TG Riccardo Paladini, il cantante Corrado Lojacono, il povero ma bello Maurizio Arena, Paolo Panelli, Nino Manfredi e Aroldo Tieri. Le donne sono la showgirl Delia Scala, l'indimenticabile Bice Valori, le attrici Anna Maria Pietrangeli, Anna Maria Ferrero e Silvana Pampanini, la signorina buonasera Aba Cercato e la soubrette Chelo Alonzo. 

sabato 21 marzo 2020

"Oi vita oi vita mia", una Magnani da Oscar

di FRANCESCO TRONCARELLI 



Intensa, carismatica, vera, donna del suo tempo, struggente e vitale, malinconica e allegra, animale da palcoscenico, ineguagiabile, inarrivabile, indimenticabile. Anna Magnani è stata la più grande attrice italiana del Novecento.

La prima a vincere un Oscar, il premio da sempre considerato il più prestigioso per chi lavora nel Cinema. Lo ricevette nel 1956 per i film "La rosa tatuata" di Daniel Manin, una pellicola drammatica su soggetto del grande Tennessee Williams, in cui Nannarella recitava al fianco di Burt Lancaster, era un 21 marzo, come oggi.

La ricorrenza di questo prestigioso riconoscimento che andava a coronare una carriera eccezionale che aveva avuto "picchi" starodinari con film come "Roma città aperta", "Bellissima" e "Mamma Roma", ci permette di parlare di lei e di ricordarla, un dovere in un mondo come l'attuale che dimentica in fretta tutto e tutti.

E vogliamo ricordarla con una delle sue ultime interpretazioni, poco conosciuta ma veramente indimenticabile, in cui emerge tutta la sua bravura di attrice, capace di recitare anche solo con gli occhi. Ci riferiamo a un episodio di una serie televisiva degli anni 70 diretta da Alfredo Giannetti, in cui la Magnani interpretava Flora, una sciantosa in declino spedita al fronte per tenere alto il morale della truppa.

E' un momento bellissimo, che coinvolge lo spettatore per la situazione contingente, in cui lei, avvolta nella bandiera tricolore come si usava allora negli spettacoli teatrali per cantare canzoni patriottiche, si rende conto che chi siede nella platea del teatrino, è un pubblico di soldati stravolti dalla guerra.

Molti sono feriti, alucuni mutilati, chi senza le gambe, chi cieco, tutti sono mogi e mentalmente in disarmo, cantare un qualcosa di patriottico e allegro è fuoriluogo e Anna così lascia cadere la bandiera e dopo un attimo di smarrimento intona "O surdato nnamurato". E la scena si trasforma in un momento bellissimo, con lei che col dolore nel cuore va avanti e la truppa che inizia a scaldarsi e tornare a vivere. Brividi. La Magnani in questo momentoè il "Cinema".

Raccontò dopo le riprese Massimo Ranieri che lavorava con lei nel film, che Anna pianse veramente durante la scena, facendo scattare una lacrima anche all'intera troupe che partecipava alla ripresa. E non poteva essere diversamente perchè nella finzione cinematografica si rappresentava una situazione che si era veramente verificata, una, dieci, cento volte in quei giorni drammatici della Prima guerra mondiale e che Anna riviveva idealemente mentre recitava.


La canzone peraltro era malvista dai comandi militari e fu proibita dallo Stato Maggiore delle operazioni di guerra (con soldati mandati a processo per averla cantata), perchè vista come inno dei disfattisti e dei codardi. Una canzone che in sostanza parlava d'amore a una fidanzata lasciata a casa per partecipare alla guerra non poteva andare bene a chi combatteva in trincea sotto il fuoco dei cecchini austriaci. Incredibile ma vero.

Meglio la carneficina di fanti-contadini, ragazzi di poco più di vent’anni strappati alle proprie terre e alle proprie famiglie di cui l’ottanta per cento non sapeva scrivere. In questo clima nasce la madre di tutte le canzoni contro la guerra. In maniera semplice, spontanea. Forse ispirandosi alla lettera di un soldato inviata dal fronte alla sua amata.

La compose Aniello Califano, rampollo di ricca famiglia di Sorrento, un po’ scapigliato e di carattere esplosivo, che amava le donne e la poesia.  Quando scoppia la guerra si trova a Napoli e frequenta sempre i tabarin. Per strada nessuno esalta il conflitto, nessuno vuole eroi. Tutti piangono i fidanzati, i mariti, i figli al fronte.

Gli spettacoli nei café chantant sono pieni di retorica patriottica, fatti di lustrini, divise e bandiere tricolori. Ballerine col cappello da bersagliere. Quelle sono di moda. È la legge della propaganda. I morti sono ignorati come pure la malinconia e i drammi della trincea. Califano allora scrive di getto una poesia che parla di cose reali e che viene musicata da Enrico Cannio.

Chi parla è un soldato, ma lo intuiamo solo dal titolo. Non si fa mai riferimento al fronte. Né alla patria. Si tace sulle battaglie, sul sangue, sui morti. Non si maledice, non si irride. Si sogna la propria amata e basta. Però è di fondo, in tutte la strofe, il desiderio di tornare a casa. È questa semplicità che diede grande forza alla canzone e che impaurì i vertici dello Stato maggiore. Per loro era l’inno di chi voleva tornare a casa, lasciare il fronte, la guerra. In pratica disertare.

E nell'interpretazione starordinaria di Anna Magnani, si avverte tutta questa voglia di tornare a vivere come una volta. Il brano quindi è anche tremendamente attuale, perchè tutti vorremmo abbandonare questo fronte in cui siamo costretti a vivere e vorremmo che questa guerra contro un mostro invisibile finisse.

«’O surdato ‘nnammurato» è un messaggio d’amore universale, per tutte le volte che il pensiero va alle cose importanti ma lontane e per tutte le volte che il dolore della vita si rifugia in ciò che si ama. E l'interpetazione superba e meravigliosa di Anna Magnani, in antitesi al canto a squarciagola che si fa negli stadi, fa riflettere ed emoziona. Un soffio di voce e parole dure come macigni che ti entrano dentro.

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