Continuano gli appuntamenti delle 18 con le canzoni capaci di restituire per qualche minuto la serenità perduta ai tempi del Coronavirus. Musica per distrarsi dal susseguirsi di notiie sempre più drammatiche e dalla segregazione in casa. Questa volta è toccato al "Tanto pe' cantà" di Nino Manfredi. Ed è stata apoteosi. Da Montemario a viale Libia, da via Appia alla Tiburtina, da largo Preneste a Monteverde con le suore che ballano in terrazzo (vedi sotto), il trascinante motivo è andato in onda dai balconi di palazzoni anonimi a case di pregio, da villini a schiera a condimini borghesi, tutti uniti nell'esorcizzare col canto la paura.
E questa canzone, con quel testo scacciapensieri ispirato alla filosfia romana del cogliere l'attimo in allegria sembra fatta apposta, quell'ironia frizzante ha rimandato alla mente momenti in cui Roma era una città a misura d'uomo, dove ci si conosceva tutti e il senso di comumità era forte, un'atmosfera che ha riportato ovviamente l’attenzione su un grande protagonista del mondo dello spettacolo ed in particolare su uno degli aspetti meno “pubblicizzati” della sua personalità artistica, ovvero la sua passione per la musica e per il canto, passione che nel corso della carriera ha esercitato a più riprese interpretando brani e incidendo dischi.
Tra i tanti brani che ha cantato e pubblicato, il più famoso è sicuramente quello oggetto del flashmob del giorno, “Tanto pe’ cantà”, un successo clamoroso che arrivò all'epoca addirittura ai vertici di Hit Parade, caso unico per un 45 giri inciso da un attore e che legittimò le ambizioni canore e musicali del futuro Geppetto televisivo.
Il brano era stato lanciato negli anni Trenta dal grandissimo Ettore Petrolini che ne era anche autore insieme al giornalista Alberto Simeoni (quello di “Casetta de Trastevere”), Nino lo ripropose come ospite d’onore a Sanremo in una veste più attuale con l’arrangiamento di Maurizio De Angelis che col fratello Guido poi partecipò anche alla registrazione, facendolo diventare con la sua tipica ironia una sorta di “atto unico”.
Reduce dal trionfo cinematografico di “Nell’anno del Signore” il capolavoro firmato da Luigi Magni in cui interpretava il ciabattino Cornacchia, “voce” della statua parlante Pasquino, Nino venne chiamato al Festival del 1970 dagli organizzatori Radaelli e Ravera. E in quel Sanremo vinto dalla coppia Celentano-Claudia Mori con “Chi non lavora non fa l’amore” seguita da Nicola Di Bari con “La prima cosa bella” e Sergio Endrigo con “L’Arca di Noè”, lui fece un figurone.
Indimenticabile Nino |
Chiamato alla ribalta dai colleghi Enrico Maria Salerno e Ira Furstemberg, presentatori del festival, Manfredi, barba curata, sigaretta nelle labbra e sguardo sornione, resse la scena da navigato artista (con Rugantino di Garinei e Giovannini aveva dominato ovunque, anche in America) e dopo aver ipnotizzato la platea del Salone delle feste del Casinò e quella televisiva col parlato della canzone, conquistò l’applauso a scena aperta quando intonò il ritornello che dà il nome al brano. Un trionfo.
E non poteva essere diversamente, perché “Tanto pe’ cantà” è una canzone allegra, spensierata, dal refrain di facile presa e che affonda la sua ironia nel romanesco brillante del varietà e che grazie a un Manfredi in grande spolvero riuscì a scrollarsi di dosso la polvere del passato per tornare più viva e “più superba che pria” (cit. Petrolini) e diventare così popolarissima e col passare del tempo uno standard interpretato da tanti altri artisti, dai Vianella a Tiziano Ferro, da Fiorini a Bonolis e Laurenti.
E adesso, a sorpresa, è tornata rincuorare il pubblico che da massa anonima si è trasformato in cittadino rifugiato a casa, svolgendo appieno la sua funzione di inno liberatorio pe' fa la vita meno amara: riascoltiamola perciò anche per dire grazie a Nino Manfredi, alla sua arte e alle emozioni che ci ha sempre regalato. Anche in musica, tanto pe’ cantà.
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